giovedì 16 settembre 2010

Somewhere (Sofia Coppola)



Carissimi lettori, mi scuso per la latitanza degli ultimi quattro mesi, ma sono qui per rifarmi. E voglio assolutamente iniziare alla grande. Non vi parlerò di un vetusto film francese o polacco, o di qualche disco di personaggi famosi che non si conoscono, no. Questa volta vi parlo del filmone che ha trionfato alla mostra di Venezia appena conclusasi, lo straordinario «Somewhere» diretto da quel genietto della Coppola. Spero che mi possiate passare una mossa così prevedibile, ma visto che tanto nessuno mi legge ho pensato che dovessi fare qualcosa di assolutamente furbetto e mainstream. E dunque. Posso dire con assoluta certezza che se c'è un film che mi ha davvero soddisfatto e lasciato con la voglia di ritornare al cinema, beh quello probabilmente è il nuovo film di Nolan che deve uscire e che io promuovo sulla fiducia, visto che questo lavoro della Coppola sicuramente non è quel film.Sto cercando di capire quale sia il recondito motivo che ha spinto Tarantino e giuria a eleggere all'unanimità il film in questione, e sono in sincero imbarazzo nel parlarne male, perchè evidentemente qualcuno deve aver capito cose che a me sono proprio sfuggite, escludendo che il premio sia stato dato in base a chissà quali favoritismi o nostalgie sentimentali del presidente (che ha avuto una breve liaison proprio con la vincitrice). Perchè io sinceramente in questo film ho visto più o meno una grande occasione sprecata. Anzi più di una. Era possibile fare un film onestamente sentimentale, delicato, introspettivo, intelligentemente misurato nella sua estetica indie e appassionato, perchè la materia di base c'era tutta. Raccontare, o meglio descrivere, la vita vuota di un uomo all'apice del successo, entrando nella sua dimensione privata (che assume un'importanza decisamente maggiore rispetto a quella pubblica, anche in termini di minuti di pellicola ad essa dedicati), usando come pretesto la presenza di sua figlia, non era una brutta idea, va detto. Ma la sua realizzazione lascia a desiderare. Il film appare freddo, inutilmente freddo, nel suo voler offrire dei quadri asciutti ed esteticamente appaganti, costruendo un gran numero di momenti convincenti del tutto privi però di coesione. Ecco dunque venire fuori il principale problema, macroscopico a dire il vero, di questa quarta opera della figlia d'arte Sofia: la coesione. Questo film si poteva benissimo chiamare: «un numero non precisato di frammenti su quel pezzo di bono di Stephen Dorff che cammina e la regista lo riprende con la telecamera a mano», per quello che offre. Il «sensibile distacco» utilizzato, che risultava vincente in un'opera come «The Wrestler» e in buona parte del quasi ottimo «The messenger» (gran bel film, lo consiglio un po' a tutti, chiaramente nei cinema attenti alle opere meno note è durato tipo una settimane, complimenti!) è qui del tutto fuori luogo, perchè in pratica vieta allo spettatore di poter un minimo capire il peso che la bambina (mai personaggio fu così privo di spessore psicologico, da quello che mi ricordo) riveste nella vita del protagonista, è bellina e fa cose carine ed è tanto disinvolta di fronte alla macchina come la sua sorellina Dakota, troppo disinvolta, anche lei fredda. Come puoi girare un film sulla redenzione, stadio antestante a una puntuale e biblica espiazione, se tutto quello che fai è far vedere uno che scopa si ubriaca e parla a monosillabi con la figlia? Posso capire che il tutto sia in funzione della caratterizzazione del personaggio e della sua vita «normale» (a proposito, mai come in questo film ho sentito la necessità del parlato originale con i sottotitoli, il doppiaggio decisamente toglie spontaneità a dei dialoghi verosimilmente basati sulla pura improvvisazione), ma allora perchè far piagnucolare i protagonisti a circa dieci minuti dalla fine, in uno dei momenti decisamente meno convincenti? Perchè non approfondire nulla? So che siamo nel campo dei gusti opinabili, lo so, ma credo che provando a fare un confronto con il già citato «The Wrestler» sia possibile capire cosa voglio dire. Entrambi i film si affidano a una narrazione abbastanza secca, prediligono la ripresa quasi «documentaristica» e sembrano descrivere più che raccontare, ma si differenziano nell'esito: l'opera di Aranofsky (che era riuscito a sbagliare tutto nella sua inutile pirotecnia presente in «Requiem for a dream» e «The fountain»), che ha i suoi momenti deboli nell'analizzare i rapporti con la vita sentimentale e familiare del protagonista, riesce però a regalarci un quadro completo della psicologia del personaggio, ce lo rende familiare al punto che riusciamo a coglierne gli aspetti più profondi senza che essi vengano esplicitati, e nonostante sia lecito aspettarsi che un lottatore non è esattamente un letterato o un filosofo, le cui elucubrazioni possono affascinare Questo probabilmente è dovuto al fatto che al di là del mero aspetto estetico, é il personaggio a essere stato concepito davvero bene, soprattutto grazie a un imponente Rourke, la cui interpretazione probabilmente esula dal puro mestiere. Questo in «Somewhere» invece proprio non avviene, Dorff è semplicemente un bono che va avanti e indietro e non ha alcuno spessore, e non credo che sia una giustificazione sufficiente dire che in fondo fosse quello il solo modo di descrivere la sua vacuità, e se proprio doveva essere così allora spiegatemi come diavolo fa un personaggio così impercettibilmente abbozzato come la figlia a generare in lui l'epifania degli ultimi minuti. é principalmente un problema di coesione, o anche di mancanza di una vera e propria morale (che altre pellicole ad esempio hanno, senza incappare in quel mostro nero che è la banalità, e che qui occorreva), a rendere l'opera qualcosa di fortemente mal riusicito e soprattutto onanistico. Spiace davvero dirlo ma per farla breve: un film alla Cocciante, bello senz'anima.