venerdì 26 ottobre 2012

"Tutti i santi giorni", Paolo Virzì (2012)


Che Virzì sia, o sia stato, un regista importante per il cinema di larga fruizione (perché di questo si tratta, ricordiamocelo, senza ovviamente dare al termine un'accezione negativa) non è cosa da mettere in dubbio. É stato autore di uno dei più acclamati racconti di formazione del nostro cinema degli ultimi 20 anni e ha sempre affrontato in maniera intelligente temi attuali con il tono della commedia leggera. Filologicamente corretto e al contempo apocrifo nei confronti della commedia all'italiana e della nobile tradizione che questo genere ha, si è sempre mosso su un binario che da un lato tiene d'occhio la tradizione e dall'altra ama divincolarsi da essa, dando una sbirciata a quello che succede nel resto del mondo. Il cinema di Virzì è però un cinema moderno e contemporaneo, nonostante il consueto contatto con la tradizione, non solo nei mezzi espressivi adottati, ma anche nella scelta dei temi, e quest'ultima opera non smentisce tale tendenza. Pur rimanendo un film sull'amore con la A maiuscola in superficie, è la precarietà il vero e proprio oggetto della messa in scena di Virzì. Non stiamo parlando di una precarietà meramente lavorativa, ma esistenziale, tipica di questi anni zero e humus principale della caratterizzazione dei due protagonisti: Thony, cantante mai realizzata, e Guido, mancato studioso ed eterno studente. Attorno a loro gira il mondo ubriaco di normalità, con le sue insistenti domande sulla precaria situazione di Thony e Guido, con la pornografica esposizione della propria stabilità (le inquadrature di famiglie felici attorno alla coppia si susseguono in maniera quasi oscena). L'idea di base sarebbe anche buona, non proprio originalissima ma potenzialmente potrebbe portare a un'ottima pellicola per palati non troppo raffinati. Sfortunatamente le piccole cadute di stile sono davvero tante, non sufficienti a fare di tutta l'opera un gigantesco tonfo, siamo d'accordo, ma ci sono. Si parte innanzitutto da una eccessiva semplificazione dei caratteri, di stampo quasi televisivo, con una spartizione tra normali e anomali, o anche tra e simpatici e antipatici (si vedano il “ginecologo del papa” e la dottoressa scherzosa), che ha del puerile; la caratterizzazione dei due protagonisti è fin troppo basata su autentici tic che scattano puntualmente in determinate situazioni (la questione della lingua forbita di lui, ad esempio, o la timidezza di lei nei confronti della propria musica), lasciando in effetti intravedere ben poco della vera essenza delle loro figure; ci sono poi figure comprimarie semplicemente abbozzate e molto spesso davvero inutili (la gag del giapponese ubriaco e sessuomane, ad esempio, resta tuttora un mistero per me), infilate a forza per strappare un sorriso o per giustificare questo o quell'evento; c'è anche un momento onirico (il dialogo intrauterino tra Guido e gli embrioni che lui vede già come suoi figli) che non sembra nemmeno appartenere al cinema di Virzì; più in generale, per evitare di tediare il lettore con un inutile elenco, il problema di base del film è nella scrittura poco controllata e a tratti imprecisa, soprattutto nella tranche finale del film, quei venti minuti che seguono l'amara scoperta della mancata gravidanza di lei, in cui la sceneggiatura si concede fin troppe licenze per portare il lavoro a una conclusione “happy” (nel senso ovosodico del termine). Il senso che si prova è spesso quello di una certa inconsistenza nella trama (la storiellina è piuttosto fragile, e forse il tono della commedia non è dei più indicati), e del disperato tentativo di rendere leggero qualcosa di profondamente amaro, con il risultato di creare un qualcosa che non solo “non va né su né giù”, come il regista vorrebbe, ma non lascia in bocca nemmeno un qualche gusto. Positive restano la fotografia e la prova dei due attori (anche se il personaggio di Guido è intrappolato da una caratterizzazione fumettistica, mentre a quello di Thony è offerta una maggiore libertà, scelta probabilmente dettata dallo status di attrice non professionista), diretti decisamente bene. Nella media, semplicemente, la colonna sonora e piuttosto forzati i riferimenti “indie” sparsi nel corso della pellicola. Concludendo, un Virzì minore, leggermente confuso, quasi frettoloso.

martedì 16 ottobre 2012

John Robinson "Who is this man?" (2009)

Vi ricordate del disco di Robot Koch e John Robinson che ho recensito ormai qualche mese fa proprio su questo blogghettino sfiizioso? No? Beh forse perchè nessuno mi legge e l'ho scritto quasi due anni fa, ma vi giuro che era bello, se avete voglia andatevelo a cercare. In ogni caso, quel disco era una figata e vedeva un John Robinson in forma invidiabile sgambettare felice su delle produzioni super elettroniche con la verve di sempre, per la gioia di grandi e piccini. Qui la verve resta invariata e per certi versi è ancora più splendente, cambiano invece radicalmente i suoni, cambiando il nome del produttore; senza nulla togliere al signor Koch (che per altro ho avuto modo di conoscere personalmente in quel di Ravenna qualche mese fa), questa volta John Robinson ha deciso di alzare un po' il tiro, andando a tirare giù dal letto un nome piuttosto impegnativo: Mf Domm, al secolo Daniel Dumile, mc leggendario che molto spesso si distingue anche per le sue qualità di produttore (prova ne sono i vari Special Herbs e un capolavoro come King Geedorah, interamente prodotto dal mascherato in persona). La presenza dell'uomo mascherato è percettibile non soltanto nelle produzioni, essendo tutto l'album permeato di atmosfere a lui congeniali, a partire dalla grande presenza di intermezzi parlati e presi da Dio solo sa dove, per passare poi all'impostazione “narrativa” di tutto l'album. Il concept è, come il titolo esplicitamente dichiara, un tentativo di presentare al mondo la figura di John Robinson dopo la scomparsa del precedente nickname adottato (lil sci'), utilizzando la tecnica del mockumentary sonoro, oltre che i vari pezzi rappati. Per quanto riguarda il rap io credo sempre che ci sia molto poco da dire riguardo a John Robinson, ha una bellissima voce dal tono piuttosto aspro che imprime un particolare effetto a liriche particolarmente intelligenti e spesso ironiche, la sua capacità di stare sul beat è notevole (per quanto a livello di flow questo sia un disco piuttosto omogeneo, è possibile notare come spesso sia in grado di assumere diverse sfumature a seconda del beat, si senta l'ottima “Rapsploitation”) ed è un vero piacere sentirlo reppare (ma questo succedeva anche ai tempi dei Scienz of Life). La bravura di John Robinson è soprattutto nell'evitare di strafare, fa del gran rap ed evita la trappola dell'eccessivo concettualismo (alla fine questo è un concept album, ma essendo il concept così narrativo lo sforzo richiesto all'ascoltatore risulta davvero tutt'altro che disumano), usando un linguaggio però mai troppo banale. La mancanza di fuoci d'artificio veri e propri dopo un po' si fa sentire, va detto, ma non si toccano mai punte di anonimato, e tutto procede a gonfie vele per tutte le tracce. Più stancante è invece il lavoro richiesto all'orecchio: Doom si è impegnato al massimo nel complicare le cose, le basi sono ricche di elementi, il cinema affiora qua e là così come si sentono le migliaia di dischi che hanno portato il nostro ad avere una biblioteca di suoni decisamente invidiabili, la struttura di ogni beat è imprevedibile, non tanto per la costruzione dei ritmi (abbiamo a che fare col boom bap, da lì non si sfugge) quanto per la scelta di fare in mondo che ogni brano abbia diversi momenti con un diverso accompagnamento sonoro (un po' à la Madvillain, per intenderci). Questo provoca un po' di smarrimento, specie se non siete degli ascoltatori abituali delle produzioni di questo tipo, ma se sopravvivete a questo aspetto vi godrete questo disco dalla prima all'ultima traccia.

sabato 6 ottobre 2012

Millelemmi - Nosocomio Tungsteno (2010)

Dopo il lavoro di Daretta, "Heavy mental", eccomi a parlarvi nuovamente del collettivo fiorentino che risponde al nome di Overknights. Togliamoci subito il dente e il relativo dolore: si tratta di un ottimo lavoro, che ho preferito al disco della controparte cilena del collettivo (che, ci tengo a ribadirlo, è comunque un mc di elevatissima qualità), per una mera questione di generale mood dell'album. Ciò che ho apprezzato è stato il tono meno serioso del tutto e lo sforzo di creare atmosfere musicali diverse ed omogenee al tempo stesso. Si prendano ad esempio le mie due tracce preferite: la titletrack e la fantastica "Perline", molto differenti tra loro eppure entrambe emblematiche manifestazioni dell'attitudine del buon Millelemmi, che ama divagare in maniera non necessariamente logica su dei non temi, affidandosi più a sensazioni vere e proprie che a descrizioni precise. La titletrack è in effetti esemplare in questo: un flow chicopiscopesco si fa beffe della metrica tradizionale dividendo le parole e asservendole a un fine prettamente ritmico (si veda la bellissima serie di versi finali della prima strofa: <>, con quel tung infilato dove meglio non potrebbe stare), e poco importa il fatto che sia estremamente arduo poter stabilire di cosa si stia parlando, dal momento che la fredda atmosfera del tutto dà proprio l'idea di una corsia di ospedale. Stesso dicasi per la sensazione di rilassamento di "Perline". Sullo stile di Millelemmi c'è dunque poco da dire se non che è altissimo e che è basato su un'attitudine quasi da linguista e filologo, cosa che vien fuori dai varidivertissement in toscano aulico (o antico, mi si perdoni l'ignoranza ma la mia conoscenza dello slang fiorentino è assolutamente limitata), e fa piacere notare che ci siano ancora mc's che non si preoccupino unicamente dell'aspetto semantico e della chiusura ad effetto del verso, sfruttando ogni singolo fonema che la nostra meravigliosa lingua mette a disposizione (l'italiano è una delle lingue più ricche e complesse del mondo, perché castrarne il valore utilizzando un vocabolario di circa 200 parole, giovani rappers?). Che il ragazzino di vent'anni capisca l'importanza di un autore come Millelemmi è forse utopia, ma questa recensione è qui anche per questo: non lasciatevi fuorviare dal fatto che il suo stile non sia immediatamente trascinante (e comunque sentitevi un suo freestyle per capire quanto diavolo è bravo!), c'è tanta di quella concezione artistica da rimanerci imbarazzati. Per finire, due parole sui beat. Prodotti tutti dallo stesso Millelemmi, hanno il pregio di esplorare uno spettro molto ampio di atmosfere, anche se non sempre riescono a sposarsi alla grande con l'interpretazione ("Uretra" ha una base bellissima che però non c'entra molto con il testo). Un disco importante, non immediato e probabilmente meno popolare di quanto meriti, se vi è sfuggito quando è uscito questo è il momento buono per rimediare, dato che lo trovate in rete in free download.

(da Rapmaniacz)

L300 - Rap Pantera (2010)

Ci sono vari modi di concepire la tecnica in Italia, e a mio parere non tutti coloro che usano la tecnica rientrano necessariamente nell'olimpo dei rappers bravi. E' chiaro che la tecnica distingue un mc anonimo da uno che potenzialmente potrebbe farsi notare, ma senza un corposo progetto artistico e una fortissima consapevolezza dei proprio mezzi, la tecnica finisce per essere pura energia senza controllo, vale a dire nulla. Ebbene, consapevolezza e preciso impianto tecnico sono alla base non solo di questo disco, ma di tutta la produzione a nome L300, team composto da Dj Cue (produttore) e Seca Sek (mc), attivo da moltissimo tempo (il primo demo, "Password", risale addirittura al 1998) e qui alla terza fatica ufficiale. Per tecnica, nello specifico, intendo la capacità di Seca Sek di operare continuamente sulle regole della grammatica e sulla sintassi, passando per esempio dalla semplice inversione dell'ordine soggetto verbo all'elisione di alcuni elementi teoricamente fondamentali come le particelle grammaticali, creando una sorta di passaggio onirico da un'immagine (periodo) all'altra. E' una formula tutto sommato inalterata ma sempre attuale quella proposta dal duo in questione, e in questo disco la novità principale è costituita dal lavoro svolto da Cue sui suoni. Come avveniva in "Password" e "Secasaga" (soprattutto in quest'ultimo), anche questo disco ha dalla sua una, forse, programmatica omogeneità di suoni che riescono a tracciare un filo conduttore tra i vari pezzi che i versi ostici di Seca difficilmente da soli potrebbero creare. Le influenze Elettroniche, ormai diventate trend irritante (quando non coadiuvate da gusto e misura), sono fortunatamente assenti e il gusto con cui Cue produce è decisamente Hip-Hop fino all'osso, senza tuttavia risultare scarno o minimalista. Ogni pezzo è infatti arricchito da numerosi espedienti per non perdersi nella trappola dei loop stiracchiati per un intero brano (si senta la bellissima "Seca perla"), e pur sentendosi delle ovvie influenze newyorchesi il produttore in questione riesce a imprimere la propria personalità alle sue creazioni (molti dei più noti produttori italiani non riuscirebbero a trattare la materia classica con dei tratti così distintivi). C'è poi da notare che le atmosfere sono molto diverse da quelle del disco precedente, che poteva suonare più spaziale (in maniera abbastanza erronea si è persino parlato addirittura di un disco def-juxiano), mentre questo è un album decisamente più street, come si può evincere dalle tracce "Bboy" e "Rap pantera". Una menzione particolare meritano le batterie, curatissime e mai noiose. Il lavoro di Seca è invece quello di sempre, un livello altissimo di scrittura e, a tratti, una più generosa fluidità nel Rap (è più scorrevole rispetto al passato, e questo potrebbe essere un incentivo per i neofiti e per coloro che furono spaventati dalle fatiche precedenti o dal celebre intervento su "Basley click"), uniti in un amalgama che è come sempre personalissimo e al contempo Hip-Hop come solo un classico della golden era potrebbe essere. Unico neo per un potenziale nuovo ascoltatore potrebbe essere l'interpretazione e il timbro della voce, non esattamente radiofonici ma proprio per questo incredibilmente underground (questi due signori sono tra i pochissimi a potersi fregiare di tale nomea, figuratevi che i loro volti sono un mistero per moltissimi), e se vi lasciate prendere dal suo flow ancora inconfondibile vedrete che passerete sopra a quest'ostacolo. Quanto ai testi e al loro significato, posso solo dirvi di non concentrarvi troppo su di essi, molti pensieri sono volutamente frammentati e alcuni periodi semplicemente si interrompono, con un approccio che ha del lynchiano, e proprio in quanto tali vanno considerati come un tutt'uno con le forme espressive utilizzate. Non c'è altro da dire, se non che consiglio a chiunque l'ascolto di questo disco perché, al di là dell'effetto che può generare nell'ascoltatore, si tratta di un lavoro che pur essendo in free download vanta una qualità globale maggiore di molte delle uscite discografiche supportate da major e indie label.

(da Rapmaniacz)

Dargen D'Amico - Musica senza musicisti (2006)

Stiamo per parlare di un disco importantissimo, in questa recensione, dal valore storico forse maggiore persino di "Di vizi di forma virtù", per il suo aver eretto un vero e proprio divisorio tra il fare Rap e il fare musica Rap. Entro subito nel vivo evitando lunghe premesse e spero di riuscire a convincere i lettori di due cose fondamentali: la bravura tecnica di Dargen e l'importanza di una concezione artistica. Devo dire che mi trovo in disaccordo con coloro che ravvisano un calo della tecnica nel periodo post Sacre Scuole: da questo disco in poi, Dargen dimostra di aver raggiunto una naturalezza che nessun'altro mc ha (mi prendo questa responsabilità e lo ribadisco: nessuno) e riesce a piazzare i versi dove cavolo vuole lui, la tecnica è assolutamente altissima nonostante il buon JD non si sbudelli troppo per farcelo notare, preferendo legare l'effetto fonetico al relativo significato, con l'eccezione di "Salv army III", che è forse il brano che meno mi convince, nonostante la classe. Sentitevi "La fedina penale" e, soprattutto, "Lo amore per tutti", dove vengono fatte delle cose a mio parere incredibili con una naturalezza e una libertà dal ritmo impressionanti, per capire cosa intendo quando dico che la tecnica è oramai diventata un tutt'uno col significato vero e proprio. Da quest'album in poi va anche detto che l'interpretazione (che nei due dischi successivi, e in particolare in "D'", raggiungerà dei livelli incredibili) diventa elemento fondamentale della tecnica (i fonemi topografici di "Zafferano vulcano siciliano" o la tragicità sentimentale di quel capolavoro che è "Commo una troia" devono quasi tutto a quel parlare biascicato), ed è forse la prima volta che capita di assistere a un uso davvero costruttivo nella voce in un disco Rap. Per intenderci, escluso il Neffa di "107 elementi" e "Chicopisco" (con cui Dargen ha una parentela artistica, a mio parere), non si sono mai sentiti dei testi che andassero ad interessare uno spettro di emozioni così ampio (il testo Rap medio è di solito costruito su di un'interpretazione per lo più rabbiosa e d'impatto, se mi è concesso), ed è forse questo l'elemento più importante di "Musica senza musicisti" e, più in generale, di tutta la produzione di Dargen da solista. Sulla questione relativa ai testi, invece, ci sarebbe moltissimo da dire, ma cercherò di riassumere nella maniera più efficace possibile: nonostante qualche rara punta di egocentrismo ancora latente, Dargen ha la forza e la voglia di parlare di cose strane, di farlo senza scomodare necessariamente la prima persona e di non farsi capire. Esatto, avete capito bene: a volte è semplicemente controproducente cercare di capire con esattezza questo o quel verso, Dargen tende a pronunciarlo in maniera strana o a soffocarlo con effetti e quant'altro, generando una sorta di smarrimento psichedelico (elemento che poi svanirà in "Di vizi di forma virtù" e "D'") che si inserisce perfettamente nel progetto che sta alla base di questo lavoro, pronunciato a chiare lettere nella titletrack: <>. L'impercettibilità di alcuni messaggi è da vedersi come il vero è proprio concept dell'album, la volontà di proporre musica e l'incertezza di poterlo fare come un vero e proprio lavoro sono il corpus principale del sottotesto, laddove il testo principale è una continua provocazione ai cardini della musica Rap, come ad esempio nella discussa analità universale (a metà tra il filosofico e il divertissement, parlato e non rappato). La consapevolezza di avere un concetto alla base di tutto il lavoro è forse l'altra grande forza di Dargen - e dico forse perché il tutto riesce a risultare così naturale da sembrare davvero frutto di un impegno minimo (anche se sei anni di pausa artistica non possono essere casuali). Dargen, per farla breve, a suo moda fa arte. In Italia difficilmente si riesce a considerare l'Hip-Hop come vera e propria arte, abbiamo molti mc's, pochissimi artisti e ancor meno artisti validi; ebbene, questo disco è stato, dopo il mai abbastanza elogiato "Chicopisco", il lavoro più coraggioso e ingenuamente provocatorio di tutto il Rap italiano, non il migliore dei lavori di Dargen (anche se probabilmente quello più tecnico dal punto di vista del flow), ma sicuramente una tappa fondamentale per chi scrive, persino più della fase cantautoriale dei due album successivi (a proposito, ritengo "D'" un capolavoro), che risultano essere più maturi ma meno di rottura. A chiunque sia a corto di idee, lo consiglio. Ah, dimenticavo una cosa fondamentale: la musica! Ce n'è tanta, non è sempre perfetta, in alcuni casi è un po' troppo incasinata, ma ha un pregio: è originale, nessuno ha mai avuto il cattivo gusto/coraggio di rappare su ritmi del genere che, per la maggior parte, vi lasceranno perplessi; ma non lasciatevi ingannare e tralasciate pure quella, è un disco di Dargen, dopotutto, dovete prendere il pacchetto intero e provare a capire come mai certe cose risultano credibili solo se messe in mano a lui. Non c'è votazione, ma ha il mio 9, lo dico a titolo infomativo.

(da Rapmaniacz)

THE GIFT OF GAB - THE NEXT LOGICAL PROGRESSION (2012)

Vi capita mai di capire, dopo un po' di ascolti, che il componente fondamentale di un gruppo sia quello che invece ritenevate secondario? Di solito questo tipo di verità viene a galla nel fatidico momento in cui le strade si dividono e i due prendono strade diverse; in questo caso è bastato un disco per capirlo e la famosa seconda chance che si concede ai migliori si è rivelata foriera di brutte notizie. Abbiamo quasi perso Gift Of Gab, ragazzi, ed è inutile darsi da fare col defibrillatore o altre cure. La soluzione si chiama probabilmente Chief Xcel, ma cerchiamo di non fare i nostalgici e vediamo perché "The Next Logical Progression" non è esattamente il top. Anzitutto la canonicità delle basi e il modo in cui vengono trattati i suoni fanno pensare che deve essere successo qualcosa di molto grave negli uffici della Quannum, da un po' di tempo a questa parte (si vedano anche l'orribile ultimo disco di Dj Shadow, nonché i suoi insopportabili live degli ultimi tempi - e lo dico con tutto il rancore possibile per una trasferta inutile in quel di Milano). La complessità tipica dei dischi dei Blackalicious viene completamente meno e ci ritroviamo di fronte a brani che, nella migliore delle ipotesi, offrono la solita miscela di Funk e sintetizzatori, senza tuttavia colpire mai nel segno (si veda il deludente brano con George Clinton, ad esempio, o "Toxic", semplicemente insopportabile), nella peggiore raccattano produzioni svogliate che sembrano composte con una tastierina usa e getta. Il Rap non riesce ad emergere neppure un po', le indiscutibili qualità di Gift devono chinarsi alla bassezza delle strumentali (nonostante in un paio di occasioni Headnodic, che è tutto tranne il mio producer preferito, ci provi a risolvere il macello combinato da G Koop), sebbene i testi continuino ad essere interessanti e caratterizzati dalla grande dimestichezza che l'mc ha col linguaggio. Non ci sono molte parole da spendere in difesa di quest'album, il solo consiglio che posso darvi è di non partire da qui, se siete dei neofiti, e di saltarlo a piè pari, se siete dei fan di vecchia data. Spiacente, ma è un'insufficienza piena, con la speranza che il prossimo torni ad essere un disco dei Blackalicious.

(da Rapmaniacz)

Destruments - Surpassing All Others (2011)

Nelle cosiddette compile realizzate da un solo team di produttori, ho sempre creduto molto poco. Più che altro per una questione di pigrizia, visto che ho spesso trovato molto impegnativo dover concentrare l'attenzione su un unico pezzo piuttosto che sul mood globale dell'intero album. In questo caso ho preferito concentrarmi sui suoni, più che sul Rap (sono davvero moltissimi gli mc's e se la cavano tutti egregiamente, non c'è la traccia bomba del disco, anche se mi sento di segnalare CF, che fa proprio un bel lavoro), per cercare di rendere giustizia il più possibile a questo duo di musicisti/produttori (in realtà ho trovato notizie discordanti riguardo quest'aspetto: c'è chi parla di trio e chi di duo, forse includendo anche Adam Wills) che rispondono al nome di Kelly Finnigan e Sean Wilson. E' anzitutto interessante notare come un disco che suona così classicamente Hip-Hop venga fuori da un gruppo di musicisti veri e propri, solitamente restii ad affidarsi alla forma rigida del beat. "Surpassing All Others" è difatti un disco che suona molto classico, possiamo banalmente dire che è soprattutto percepibile una matrice Soul, più che in molte altre uscite. Sono molto intriganti i brani con atmosfere più smooth, come "The ZeeOheNeE", "Fly Away" (grande il synth in questa traccia!) o "Got Love", tutte suonate molto bene e con delle strofe più che piacevoli, così come gli ottimi interludi strumentali. Per mia personale attitudine, tendo a preferire quei brani rispetto alle tracce più aggressive, anche se ci sono diverse piccole chicche sparse in giro per il disco. Per esempio le batterie sono quasi sempre al top della forma, come in "Transworld Express" o in "Forever Mine", e sono molto belle le atmosfere di brani come "Reflection" e "That Fire", forse le due tracce che meglio si adattano al Rap dell'mc di turno. Si tratta di un buon disco, per farla breve, anche se a mio parere si è un po' sprecata l'occasione di realizzare musica che si distacchi da una pur pregevolissima forma canonica di beat. Per spiegarmi meglio: avrei voluto più un approccio alla Herbaliser (tutt'ora il mio gruppo preferito, da questo punto di vista) e una minore concentrazione di mc's (tutti notevoli ed è per questo che non mi voglio soffermare sul loro ruolo, ma se volete un giudizio personale vi dico che la mia top tre è: CF, Has-Lo, Killah Priest), ma ciò non toglie che per chi cerca un sacco di ottimi rapper su dei beat costruiti molto bene, questo sia decisamente il disco da avere o da farsi regalare. Per concludere, aggiungo che sono molto curioso di vedere questi signori dal vivo da qualche parte nel mondo, perché credo che l'aspetto live possa risultare fondamentale per apprezzarli fino in fondo.

(da Rapmaniacz)