giovedì 16 settembre 2010

Somewhere (Sofia Coppola)



Carissimi lettori, mi scuso per la latitanza degli ultimi quattro mesi, ma sono qui per rifarmi. E voglio assolutamente iniziare alla grande. Non vi parlerò di un vetusto film francese o polacco, o di qualche disco di personaggi famosi che non si conoscono, no. Questa volta vi parlo del filmone che ha trionfato alla mostra di Venezia appena conclusasi, lo straordinario «Somewhere» diretto da quel genietto della Coppola. Spero che mi possiate passare una mossa così prevedibile, ma visto che tanto nessuno mi legge ho pensato che dovessi fare qualcosa di assolutamente furbetto e mainstream. E dunque. Posso dire con assoluta certezza che se c'è un film che mi ha davvero soddisfatto e lasciato con la voglia di ritornare al cinema, beh quello probabilmente è il nuovo film di Nolan che deve uscire e che io promuovo sulla fiducia, visto che questo lavoro della Coppola sicuramente non è quel film.Sto cercando di capire quale sia il recondito motivo che ha spinto Tarantino e giuria a eleggere all'unanimità il film in questione, e sono in sincero imbarazzo nel parlarne male, perchè evidentemente qualcuno deve aver capito cose che a me sono proprio sfuggite, escludendo che il premio sia stato dato in base a chissà quali favoritismi o nostalgie sentimentali del presidente (che ha avuto una breve liaison proprio con la vincitrice). Perchè io sinceramente in questo film ho visto più o meno una grande occasione sprecata. Anzi più di una. Era possibile fare un film onestamente sentimentale, delicato, introspettivo, intelligentemente misurato nella sua estetica indie e appassionato, perchè la materia di base c'era tutta. Raccontare, o meglio descrivere, la vita vuota di un uomo all'apice del successo, entrando nella sua dimensione privata (che assume un'importanza decisamente maggiore rispetto a quella pubblica, anche in termini di minuti di pellicola ad essa dedicati), usando come pretesto la presenza di sua figlia, non era una brutta idea, va detto. Ma la sua realizzazione lascia a desiderare. Il film appare freddo, inutilmente freddo, nel suo voler offrire dei quadri asciutti ed esteticamente appaganti, costruendo un gran numero di momenti convincenti del tutto privi però di coesione. Ecco dunque venire fuori il principale problema, macroscopico a dire il vero, di questa quarta opera della figlia d'arte Sofia: la coesione. Questo film si poteva benissimo chiamare: «un numero non precisato di frammenti su quel pezzo di bono di Stephen Dorff che cammina e la regista lo riprende con la telecamera a mano», per quello che offre. Il «sensibile distacco» utilizzato, che risultava vincente in un'opera come «The Wrestler» e in buona parte del quasi ottimo «The messenger» (gran bel film, lo consiglio un po' a tutti, chiaramente nei cinema attenti alle opere meno note è durato tipo una settimane, complimenti!) è qui del tutto fuori luogo, perchè in pratica vieta allo spettatore di poter un minimo capire il peso che la bambina (mai personaggio fu così privo di spessore psicologico, da quello che mi ricordo) riveste nella vita del protagonista, è bellina e fa cose carine ed è tanto disinvolta di fronte alla macchina come la sua sorellina Dakota, troppo disinvolta, anche lei fredda. Come puoi girare un film sulla redenzione, stadio antestante a una puntuale e biblica espiazione, se tutto quello che fai è far vedere uno che scopa si ubriaca e parla a monosillabi con la figlia? Posso capire che il tutto sia in funzione della caratterizzazione del personaggio e della sua vita «normale» (a proposito, mai come in questo film ho sentito la necessità del parlato originale con i sottotitoli, il doppiaggio decisamente toglie spontaneità a dei dialoghi verosimilmente basati sulla pura improvvisazione), ma allora perchè far piagnucolare i protagonisti a circa dieci minuti dalla fine, in uno dei momenti decisamente meno convincenti? Perchè non approfondire nulla? So che siamo nel campo dei gusti opinabili, lo so, ma credo che provando a fare un confronto con il già citato «The Wrestler» sia possibile capire cosa voglio dire. Entrambi i film si affidano a una narrazione abbastanza secca, prediligono la ripresa quasi «documentaristica» e sembrano descrivere più che raccontare, ma si differenziano nell'esito: l'opera di Aranofsky (che era riuscito a sbagliare tutto nella sua inutile pirotecnia presente in «Requiem for a dream» e «The fountain»), che ha i suoi momenti deboli nell'analizzare i rapporti con la vita sentimentale e familiare del protagonista, riesce però a regalarci un quadro completo della psicologia del personaggio, ce lo rende familiare al punto che riusciamo a coglierne gli aspetti più profondi senza che essi vengano esplicitati, e nonostante sia lecito aspettarsi che un lottatore non è esattamente un letterato o un filosofo, le cui elucubrazioni possono affascinare Questo probabilmente è dovuto al fatto che al di là del mero aspetto estetico, é il personaggio a essere stato concepito davvero bene, soprattutto grazie a un imponente Rourke, la cui interpretazione probabilmente esula dal puro mestiere. Questo in «Somewhere» invece proprio non avviene, Dorff è semplicemente un bono che va avanti e indietro e non ha alcuno spessore, e non credo che sia una giustificazione sufficiente dire che in fondo fosse quello il solo modo di descrivere la sua vacuità, e se proprio doveva essere così allora spiegatemi come diavolo fa un personaggio così impercettibilmente abbozzato come la figlia a generare in lui l'epifania degli ultimi minuti. é principalmente un problema di coesione, o anche di mancanza di una vera e propria morale (che altre pellicole ad esempio hanno, senza incappare in quel mostro nero che è la banalità, e che qui occorreva), a rendere l'opera qualcosa di fortemente mal riusicito e soprattutto onanistico. Spiace davvero dirlo ma per farla breve: un film alla Cocciante, bello senz'anima.

lunedì 5 aprile 2010

"Lucio Dalla" (1979) - Lucio Dalla (ovvero: non si esce vivi dagli anni ottanta)

Copertina di Lucio Dalla Lucio Dalla

prologo: ho incontrato una simpatica ragazza sul treno ancona bologna, alla quale ho dato una delle mie famose risposte idiote che malcelano la mia storica indole instabile: spero che tu legga questa recensione e che apprezzi, per altro sapere che Dalla ti ha svezzata è un bonus da dodicimila punti a tuo favore, detto questo, per tutti gli altri: il sito di ondarock dedica uno spazio a Dalla davvero ben fatto, il mio è un solito divagare sulle cose che lasciano un qualche segno in me, voi consideratelo appunto come un divertissement. grazie!

In questi giorni mi capita spesso di ascoltare un disco di Lucio Dalla, che si chiama come lui, ed é del settantanove, che in pratica è l'anno prima dei famigerati anni ottanta. Lo intervallo a un disco italiano fatto da uno che si chiama il Sig. Solo, che è un ragazzo di trentanni (oddio, credo qualcosa di più, ma magari ne ha di meno quindi facciamo finta che non ho detto nulla) che suona le tastiere ed ha un approccio che può, con un po' di fantasia, ricordare il Dalla senza reumatismi e artrite. Non credo che si equivalgano artisticamente, anche perché tendo a considerare il Dalla di quegli anni l'unica forma di divinità pagana socialmente accettabile, ma la sensazione che si ha, ascoltando questi due, è che ci sia una sorta di continuità nell'approccio alla costruzione dei pezzi (anche se, lo sottolineo, il modo di cantare e di scrivere è diversissimo, è proprio una questione di attitudine, giusto per evitare che possiate pensare di ritrovarvi a un'operazione di riciclo). E la cosa allora mi ha fatto riflettere sul ruolo del signor Dalla nel magico mondo dei cantautori. E sulla vita. E sul fatto che non mi veniva in mente davvero nulla da scrivere fino a quando non ho assistito al gran brutto concerto in coppia con De Gregori impietosamente trasmesso dalla nostra tivù nazionale (io più che per l'assenza di Luttazzi protesterei per la presenza di costoro). E sul ruolo del destino e della fortuna. E poi ho detto “basta” e mi sono messo a scrivere. Premessa: non voglio essere cinico e dire che l'età conta e che non è vero che puoi fare musica tutta la vita, ma purtroppo devo. Perché sì, ecco, la pensione esiste ed è una cosa buona e in fin dei conti sensata, anche se in fondo piace a pochi (è un fenomeno che rientra nell'ABC della psicanalisi, ma che ve lo dico a fare, voi siete gente colta e accorta, lo avete studiato prima di me e meglio di me). E credo che sia ingiusto vivere in un paese eccessivamente democratico, dove ai cantautori è concesso di fare dischi dopo una certa età. Mi lamento del governo soprattutto in relazione a questo, oltre che all'aumento del prezzo delle sigarette (che per altro fumo di rado). Che poi non si parli di politica in tivù mi spiace, ma sono convinto che se in Italia smettessimo di chiamare Loredana Berté nei talent show e impedissimo a Lucio Dalla di fare ancora dischi le cose andrebbero meglio. Ne guadagnerebbe il nostro senso critico, avremmo rispetto per gli anziani e saremmo molto più tolleranti. E forse rovesceremmo il governo. E invece no. Alla luce dei fatti, Dalla fa dischi postumi anche se ancora respira e l'unica cosa buona che ci resta di lui è nascosta nell'approccio gioioso, sporadicamente ispirato e soprattutto ironico di avvicinarsi alla canzone in alcuni autori nostrani che non sono ancora entrati nella Anta Generation. Che poi alla lunga abbia rotto il cazzo pure quello è vero, ma è un discorso lungo, delicato e scomodo che la mia indole involontariamente democristiana non consente. Pardon, non votatemi e sputatemi, ma pardon. Ma dicevamo di Dalla quand'era giovane e bello. Anzi, solo giovane. Ma neppure, visto che il Dalla di cui parlo aveva tipo 40 anni, mica venti, e neppure trenta come me (quasi), quando realizzava questo album fichissimo, non pago di aver vomitato (credo che chi conosce questo disco mi potrà concedere tranquillamente il termine) una robina che si chiama “Com'é profondo il mare”, che è tipo una delle cose più potenti del cantautorato italiano in generale. Solo che quel disco, per quanto bellissimo, aveva un mood diverso, un fine preciso che probabilmente esulava dal mero intrattenimento, ed è soprattutto un disco di contrapposizione alla realtà circostante, con tutta l'irriverenza per nulla bonaria, per quanto divertente, che permea gran parte delle tracce. In pratica, si può dire che sia stato un disco “combattente” (e non militante, attenzione, le parole sono importanti), un ottimo disco combattente per la precisione, che andrebbe cantato per intero nelle piazze, al posto dei soliti omaggi del cazzo a Rino Gaetano che arrivano in casa nostra durante il primo maggio. Con “Lucio Dalla” si può invece dire che la guerra è finita. Abbandonata la rabbia giovane e ritrovato il bello nelle persone, Dalla mette in scena del materiale da fiction, personaggi senza tratti peculiari così interessanti, non c'è più nulla degli eroici pesci del disco precedente, restano le persone, anzi: la gente. Sembra che Dalla in questo album abbia (in)consciamente carpito quel grande segreto che si cela dietro al mondo, e cioè che gli esseri umani sono sostanzialmente semplici, rispondono a un numero limitato di impulsi e hanno reazioni prevedibili in quanto umane di fronte alle situazioni. Nessuno è speciale nella misura in cui tutti lo sono, insomma, sembra cantare Dalla, con i suoi Anna e Marco i suoi amici a cui spedisce lettere cautamente ottimiste (ma innegabilmente amare, va sottolineato). E dunque anche le sue canzoni, sono semplicemente quelle di un ottimo interprete di sé stesso, l'etichetta di cantautore va bene per i timidi dal ciuffo davanti alla faccia e per giovani tormentati dalla metafora facile. Alla faccia di qualche poeta col trip dell'impegno. In ogni caso, questo è l'aspetto più interessante del disco, a mio parere, dal punto di vista dei testi: da una parte hai il cantautorato (e quindi De Andrè e derivazioni varie), dall'altra gli onesti/disonesti professionisti, quelli che magari non li chiami poeti ma tuttavia riescono a confezionare motivetti orecchiabili e persino piacevoli. Ecco, in mezzo ci sono Dalla e pochi altri. Battiato forse, negli anni ottanta, ma non si può certo dire che non fosse sofisticato. Gaber, ecco lui sì, anche se al centro del lavoro di Gaber viene prevalentemente trattata una problematica in particolare, mentre il Dalla di questo periodo sembra dedicarsi a tutto tranne che a una problematica. In questo si può ritrovare il principale pregio di costui: nella sua unicità in Italia. Anche dal punto di vista musicale, se di invenzione vera e propria non si può parlare, si può notare l'originalità nel modello da imitare: volontariamente o meno, “Lucio Dalla” trasuda funk, va matto per il groove, anticipa senza saperlo l'hip hop, condisce il tutto all'amatriciana e serve in tavola. Curioso che sia stato un gruppo assolutamente superfluo come gli Articolo 31 di “Così com'è” a riportarlo in vita attraverso un featuring negli anni novanta (“L'impresa eccezionale”), mentre più di dieci anni dopo l'operazione più spiccatamente “reverenziale” nei confronti di costui sia invece da attribuirsi a un gruppo rispettato come i Mariposa nella canzone Sudoku (dire che la canzone sia semplicemente e quasi casualmente simile a un pezzo di Dalla è come dire che Shutter Island é il film di un regista distratto che non controlla il genere... ah ma l'hanno detto, ora che ci penso, sono distratto anche io!) Ripeto, questo disco fa bene alla salute, probabilmente non incrementerà la vostra vita sessuale a causa della pessima fama di cui gode Dalla presso le generazioni che lo hanno conosciuto tramite “Attenti al lupo” (come nel mio caso, ad esempio), ma vi farà rivedere probabilmente l'accezione del termine “cantautoriale”, se siete persone intelligenti e senza pregiudizi. Del resto, ci sarà un motivo se voi votate a sinistra e gli altri no, non credete? Ciao.

Ps: Mi sento di segnalarvelo, dato che mi ha dato l'ispirazione a scrivere di ciò e soprattutto mi ha suggerito il sottotitolo agnelliano: il disco del Sig. Solo si chiama “Il centro é commerciale”, lo trovate su i tunes o ai concerti del suddetto, il riferimento a Dalla non è così palese come quello (comunque elegante) a Battisti, ma sono del tutto sicuro che i più attenti di voi non faticheranno a individuarlo. In ogni caso è un disco godibilissimo e leggero, ideale per scrivere recensioni ed sms alla persona cara. Per i rave sull'enterprise bussate alla porta accanto, grazie.

martedì 2 marzo 2010

"La vita é breve e spesso rimane sotto" (Dino Fumaretto)



Su Fumaretto/Billoni ho detto moltissimo nel corso di svariate conversazioni con un sacco di ragazzi e ragazze, soprattutto ragazze, perchè conosco pochi maschi, mi piacciono le femmine, anche se il mio cavaliere dello zodiaco preferito non é mai stato Andromeda. Quando ne parlo, parto sempre da quella che è l'idea alla base del lavoro di Fumaretto, poi passo a una sommaria descrizione di uno o più dei suoi dischi, e infine invito la mia interlocutrice a venire con me a uno dei numerosi concerti del signor Billoni. Salto volutamente tutta la parte dedicata a influenze e ispirazioni, perchè dire che costui ha a che fare con Morgan o con Battiato mi sembra roba da rockit, sito che personalmente detesto in maniera pubblica e sfacciata, probabilmente più per il lettore medio che per le recensioni in sé (del resto sono scritte in maniera interessante, anche se hanno questo maledetto trip dello spendere dieci righe per dire chi o cosa ha ispirato qualcuno: mah!). Fumaretto può incrementare la vostra vita sentimentale/sessuale, anzi, sessuale, se avete una buona oratoria e amicizie femminili di un certo tipo. Il che mi sembra un motivo più che sufficiente per comprare il suo disco, o anche solo per finire questa recensione, farla propria e cercare la partner adatta. Potreste addirittura finire la serata a rotolarvi sul pavimento con la vostra amica, magari ascoltando questo ultimo capolavoro, uscito fresco fresco grazie anche all'ausilio della Trovarobato, che é forse l'etichetta per antonomasia degli artisti famosi che non si conoscono (quelli che se li trovi in un locale dici ai tuoi amici indie: “oh guarda, quello é vasco brondi”, o dente, o enrico gabrielli, o the niro, oppure boh). Così, prendete questa recensione come una di queste mie conversazioni di cui ho appena parlato, e se siete delle donne ricordatevi che sono libero, disponibile e risiedo a Bologna.
Dunque, diciamo che il signor Fumaretto ed Elia Billoni sono la stessa persona, ma in fondo non é vero. Perché Elia é una persona, e Fumaretto é un personaggio, anche se reale. Esiste in quanto pensa, il che é sufficiente per dire che Fumaretto c'è. E in questi tempi di laicità ostinata e obbligatoria mi sembra già tanto. Quando dico che c'è e che pensa voglio riferirmi al fatto che questo progetto musicale gode di un attimo impianto teorico, attraverso il quale é ben delineato quello che il personaggio pensa e dice, il suo linguaggio è lui, è lui il famoso luogo di cui parla Giorgio Manganelli. Che poi Billoni ci parli, ci canti o ci porti a pisciare il cane sopra, non é così importante, perchè Fumaretto, come già detto, probabilmente ci sarebbe lo stesso. Così, nell'ascoltare le cose scritte da questo personaggio, noi sappiamo già come dirà qualcosa, anche se non sappiamo esattamente cosa, essendo ahimè sprovvisti di poteri esp. Sappiamo che qualsiasi cosa verrà scritto da costui sarà verosimilmente pesante, tronfia e lamentosa, surreale, indefinita. Bene, prendete questa scrittura e datela in mano a Billoni, come se si trattasse di tutt'altra persona. Billoni non è così lamentoso, é una persona che sembra molto simpatica, sicuramente si gode della vita molto più del suo amico/maestro/conoscente Fumaretto, forse si prende molto meno sul serio. Così, in bocca a lui, le parole di Fumaretto cambiano, diventano altro: fanno ridere in maniera quasi sacrilega rispetto alla materia trattata. E così ridiamo apertamente della depressione, della morte, dell'omicidio, senza troppi sensi di colpa. É colpa del Billoni, del suo esagerare le cose, della sua capacità di entrare nel grottesco e uscirne pulito e profumato facendoci vedere tutto nel suo lato più good, anche se la vita é una merda, giusto per parafrasare alcune delle sue parole, colpa del suo mettere in scena, più che interpretare, le parole di Fumaretto, in una specie di atto liberatorio che probabilmente andrebbe a genio a Jodorowski o al mio ex professore di filosofia del liceo, in quanto in grado di riflettere anche i nostri momenti di esagerazione, l'eccessivo peso date alle crisi: se si ride, quasi cinicamente, della depressione è perché questa parola ha perso la sua validità scientifica ed è diventata di moda, e Billoni sembra averlo capito davvero bene. Il che però ci pone di fronte a un rischio: se non ci fosse Billoni e se non ci fossero le sue performance live probabilmente i dischi di Fumaretto perderebbero molta della loro utilità. Perchè si tratta pur sempre di dischi composti quasi unicamente di piano e voce, realizzati senza particolari accorgimenti produttivi, che se non fossero costituiti di quella ricca materia prima di cui sopra, risulterebbero davvero l'equivalente di un discreto demo con alcuni spunti interessanti e stop. Ecco, se proprio si volesse parlare un po' male di costui, dato che in una recensione non puoi mica dire bene e basta, a meno che non ti paghino e a meno che il recensito non sia tuo amico e/o cognato, direi che si può incolpare il Billoni di aver realizzato questo terzo disco come se fosse il primo, seppur con più professionalità. Ah, ovviamente questo va detto tenendo conto del fatto che in effetti, da un punto di vista “ufficiale”, questo può essere considerato il suo debutto sul mercato tradizionale, quello dei negozi, con tanto di etichettina prestigiosa/famosa a far da garante, qualora si senta la necessità di vedere chi fa da padrino al tutto. É però lecito temere che alcuni dei fan di vecchia data, poco comprensivi e probabilmente poco pratici, trovino l'operazione vagamente commerciale, ma in fondo fa parte dei rischi del mestiere, e non ci si può far molto. Con questo non voglio assolutamente consigliare a Fumaretto/Billoni di farsi rovinare il prossimo disco dal Giorgio Canali di turno, tuttavia sono molto curioso di vedere cosa può succedere con l'ausilio di altri strumenti e magari l'intervento di qualcuno per quanto riguarda la produzione. Potrebbe benissimo capitare che finirei per rimpiangere il precedente, ovvio, ma secondo me si può rischiare. Comunque consiglio a tutti di godersi l'esperienza di un suo concerto e la lettura del suo blog, perchè con Fumaretto abbiamo finalmente un artista davvero impegnat(iv)o e stimolante da un punto di vista letterario (sarebbe più opportuno fare il nome di un Kafka anziché di un Gaber o di un Morgan), il cui merito principale é di contrapporre la prosa alla poesia, e in tempi di scontatezza come questi, mi sembra un punto decisamente a suo favore. Ho finito.

Ps: non ho voluto citare ogni singolo pezzo e mi scuso di ciò, ma data l'omogeneità del lavoro, mi sembrava più rispettoso offrire un quadro generale dell'opera, comunque “mostra” e “la vita in ufficio” sono un ottimo motivo per acquistare il disco!

giovedì 11 febbraio 2010

Il tuffatore (Giurato. Flavio, non Luca)




Il Tuffatore é un disco dell'ottantadue mi pare. Dovrei andare su Wikipedia e vedere quando é uscito, ma non mi va, perchè sono pigro.
Tuttavia Il Tuffatore é anche un concetto piuttosto interessante, se ci pensate.
Cadere con stile:
é una cosa che sanno fare i gatti e i tuffatori.
e taluni nel mondo del calcio. ma loro lo fanno in maniera immorale, maliziosa. i tuffatori e i gatti invece no, anche se nei tuffatori c'é però quel pizzico di narcisismo che i gatti non hanno, perchè i gatti cadono con stile ma senza virtuosismo, é una questione di istinto perseguire la bellezza (o la salvezza, dipende dai casi e dal dna, o dall'oroscopo).
Così, se cadi con stile e non miagoli sei per forza di cose un tuffatore (per amor di logica: sì, i gatti non si butterebbero mai in acqua e non esistono tuffatori su terra, a parte i giovani che si dedicano al parkour, ma sono una minoranza silenziosa e impotente... insomma, scusate, ma tanto é un blog, mica il Fatto Quotidiano che tanto piace, posso dire cose stupide e inutili).
E allora cadere diventa bello, parlare del cadere diventa bello, differenziarsi da quelli che volano grazie a dio, o a qualche particolare propellente sperimentale, o alla morte, affascinare il mondo per come tocchi l'acqua senza farti male, rinascere. Questo é quello che ci vedo io, nel concetto di Tuffatore, se poi é quello che vuole dire Flavio Giurato io non lo so, ma so che per almeno metà di questo disco la sua musica mi piace, e mi piacciono i suoi testi, così poco poetici e così intelligenti.
L'altra metà é più difficile da avvicinare, per un individuo della mia età e della mia indole, così poco propensa alla storia con la S maisucola, quella ufficiale ed ufficiosa dei settanta, lontana dalle vicende e vicina ai fatti, ma ha un suo valore, ne sono certo. Tuttavia vorrei parlare della mia metà, quella che non capisco e che in parte ho dunque capito.

Quella che fa dire a Giurato (Flavio, non Luca, per amor della precisione) una cosa del genere:

Amore amore amore
Figliola non andare coi cantautori
Amore amore amore
Che poi finisci nelle canzoni

é una metà piuttosto semplice, fatta di concetti che chiunque potrebbe fare propri, se solo sapesse cantare e se solo avesse una passione per le cadute con stile. Giurato non vola, e probabilmente se ne frega, lui é di quelli che preferiscono cadere, e rinascere ogni volta dall'acqua all'aria, canta con una voce trascinata che a tratti può ricordare Rino Gaetano o il De Gregori migliore (che, per intenderci, é da cercarsi nel disco "Bufalo Bill", per lo meno dal punto di vista vocale), e che a volte invece diventa qualcosa di personale e particolare, difficilmente associabile ad altro. La musica non é fatta di momenti imperdibili, a mio parere, le costruzioni sono interessanti ma nulla di "esclusivo", le accelerazioni e i cambi improvvisi erano già nel patrimonio genetico di un certo cantautorato colto e forse utilizzati con maggior efficacia da altri. Per altro quel sax, per quanto ben suonato, dà una patina anni ottanta a un disco che poco ha a che spartire con quell'epoca (come tutti ben sanno, non si passa da un'adolescenza all'altra in una notte: il disco sembra più un figlio concepito nei settanta che degli ottanta, nonostante la produzione. e la nascita). Però.
C'é una cosa che mi fa davvero stupire del lavoro di Giurato, (Flavio, non Luca).
Le intuizioni. Ecco, mi sembra che il disco sia davvero moderno e furbetto (per la prima volta uso queste parole in un'accezione non negativa, che spero venga recepita correttamente), concettuale, interessante, pieno di quei riferimenti che potresti trovare oggi in un Dente, in un Bugo (che a livello di voce lo ricorda moltissimo, chissà se lo ha ascoltato!), o nei Baustelle... sembra che riesca ad essere più retrò di costoro, pur trovandosi in un epoca contigua a ciò cui sembra fare riferimento... si evince da pezzi come Valterchiari, la straordinaria Introduzione o anche il bel finale Notte di concerto una grandissima intelligenza nell'approcciarsi al MESTIERE di cantautore, a scapito forse di una certa spontaneità o genuinità, che può probabilmente aver trovato impreparato il pubblico di quegli anni. Perchè un disco come questo farebbe sbrodolare un sacco di appassionate del cantautorato indie. Altro che Brondi, o Peveri, se Giurato fosse giovane e bello (o anche solo giovane), avrebbe una groupie diversa ogni sera. Il che non sarebbe necessariamente un bene, ma é per rendere l'idea, of course.
Perciò sì, credo che questo disco sia attualissimo, a parte quel sax, proprio perché il suono attuale dei cantautori sembra ricercare il passato con irritante insistenza. E mi sembra persino migliore, come spesso capita nei confronti tra originale e remake. E poi, a parte tutta la puntiglioseria, credo che ci siano almeno una decina di frasi che valgono da solo l'acquisto del disco, cito solo:

Un giocatore è diverso da tutti gli altri passanti
Ma anche una donna alta non è mai banale
Sarà per lo sguardo necessariamente superiore

mentre un post a parte dedicherebbe la title track: perfetta, breve, incisiva. power.
non si nasce mai nel posto adatto e nel tempo adatto.

mercoledì 10 febbraio 2010

La Prima Cosa Bella (Paolo Virzì)



togli il dente e togli il dolore: é il miglior film che ho visto negli ultimi sei mesi. il che non ne fa un film perfetto, ma direi che la cosa non é grave: dio é perfetto, dio non esiste, la perfezione non esiste. é meglio così. altrimenti ti arrivano delle perle come l'opera dello stilista tom ford che al di là dell'algida bellezza sembrano offrirti le stesse cose che potrebbero procurarti i fratelli lehman. della bellezza ce ne sbattiamo, siamo alternativi noi, abbiamo fidanzate bruttine e, se ci va bene, vestiamo male perchè lavoriamo in banca, e amen. quindi, la prima cosa bella é bello, cioé non é brutto, non fa schifo, quindi: laurea con lode a virzì. che ha fatto film belli e film brutti, del tipo che Ovosodo lo guardo ancora volentieri, la Bella Vita (che non é "La vita é bella"!) pure, gli altri un po' meno. in particolare bisogna dire che in questo caso il film di virzì ha il pregio di non esagerare. il che può anche essere letto come un non osare, ma dipende dai punti di vista: ad esempio a me piacciono le ragazze in carne, gli altri dicono che ho una perversione per le ragazza grasse, e qualcuno dice che sono sensibile, mentre altri pensano che io sia un frocio mancato. insomma, rendo l'idea, no? ecco, io sono di quelli che "é meglio non abbondare piuttosto che eccedere". in culo ai latini e ai saggi. e dunque virzì sì. perchè mica é facile reggere alla tentazione di far piangere le donne per farti dire sì, il regista e l'artista sono individui seduttivi per tendenza, non ci fanno apposta: ti fottono la ragazza senza farci apposta, é un film vecchio, eh. ma virzì no, perchè virzì conosce il dono della misura: in questo film ci saranno due grossi litigi per un totale di circa sei minuti, che sono tipo il due per cento di quelli presenti invece in "baciami ancora" (che per dircela in modo carino, fa davvvero evacuare). e anche se la storia la potresti scrivere su un post it (lui non vuole vedere lei, ma poi torna da lei giusto in tempo per vederla morire. solo che lui é il figlio e lei é la madre, e stop), va bene, perchè in fondo il film non ha una trama assurda, non ha un un intreccio leggendario: é la commedia dell'Italia, senza quella pretesa generazionale che il tema rischia di imporre. il fatto che sia simile a una tipica Commedia all'Italiana é solo un caso, secondo me, e se é voluto non é un mero recupero di certi codici per quanto riguarda la grammatica, quanto più una necessità di esprimere un'epoca che si differenzia dalla nostra (in qualche modo era necessario esprimere il salto temporale nei due momenti della narrazione, anche perchè abbiamo un montaggio in parallelo piuttosto che una sequenza cronologica regolare). difendo questo film perchè ha il pregio di saper gestire almeno il novanta per cento della sua totale durata, e per una rara volta i suoi momenti deboli non sono nel finale (cazzo, ma ci avete mai fatto caso? ogni film italiano che esce sarebbe un potenziale buon film se non fosse per l'ultima parte in cui devono stiracchiare il finale a tutti i costi per almeno un quarto d'ora...), quanto in alcune (poche a dire il vero, ne ho contate due) pericolose sbandate verso il sentimentalismo da cui però, dato il tema, era difficilissimo salvarsi. infine, gli attori non sono incredibili, ma virzì li sa dirigere, come se avesse preso le caratteristiche peculiari di ciascuno di loro e le abbia appiccicate ai protagonisti. risulta brava persino la sua adorabile e per nulla talentuosa mogliettina (la sindrome di yoko non risparmia nessuno...). tutto questo per specificare che credo che La Prima Cosa Bella non sia un capolavoro, ma almeno non fa schifo e non mi fa pentire di aver iniziato un lavoro che in qualche modo serve anche a produrre pellicole in italia. e per ricordare a tutti che se in italia i registi iniziassero a fare film probabilmente le cose andrebbero bene. ps: scusate, ma in epoca di fobia da spoiler non rivelerò tendenzialmente nulla in queste mie divagazioni