venerdì 26 ottobre 2012

"Tutti i santi giorni", Paolo Virzì (2012)


Che Virzì sia, o sia stato, un regista importante per il cinema di larga fruizione (perché di questo si tratta, ricordiamocelo, senza ovviamente dare al termine un'accezione negativa) non è cosa da mettere in dubbio. É stato autore di uno dei più acclamati racconti di formazione del nostro cinema degli ultimi 20 anni e ha sempre affrontato in maniera intelligente temi attuali con il tono della commedia leggera. Filologicamente corretto e al contempo apocrifo nei confronti della commedia all'italiana e della nobile tradizione che questo genere ha, si è sempre mosso su un binario che da un lato tiene d'occhio la tradizione e dall'altra ama divincolarsi da essa, dando una sbirciata a quello che succede nel resto del mondo. Il cinema di Virzì è però un cinema moderno e contemporaneo, nonostante il consueto contatto con la tradizione, non solo nei mezzi espressivi adottati, ma anche nella scelta dei temi, e quest'ultima opera non smentisce tale tendenza. Pur rimanendo un film sull'amore con la A maiuscola in superficie, è la precarietà il vero e proprio oggetto della messa in scena di Virzì. Non stiamo parlando di una precarietà meramente lavorativa, ma esistenziale, tipica di questi anni zero e humus principale della caratterizzazione dei due protagonisti: Thony, cantante mai realizzata, e Guido, mancato studioso ed eterno studente. Attorno a loro gira il mondo ubriaco di normalità, con le sue insistenti domande sulla precaria situazione di Thony e Guido, con la pornografica esposizione della propria stabilità (le inquadrature di famiglie felici attorno alla coppia si susseguono in maniera quasi oscena). L'idea di base sarebbe anche buona, non proprio originalissima ma potenzialmente potrebbe portare a un'ottima pellicola per palati non troppo raffinati. Sfortunatamente le piccole cadute di stile sono davvero tante, non sufficienti a fare di tutta l'opera un gigantesco tonfo, siamo d'accordo, ma ci sono. Si parte innanzitutto da una eccessiva semplificazione dei caratteri, di stampo quasi televisivo, con una spartizione tra normali e anomali, o anche tra e simpatici e antipatici (si vedano il “ginecologo del papa” e la dottoressa scherzosa), che ha del puerile; la caratterizzazione dei due protagonisti è fin troppo basata su autentici tic che scattano puntualmente in determinate situazioni (la questione della lingua forbita di lui, ad esempio, o la timidezza di lei nei confronti della propria musica), lasciando in effetti intravedere ben poco della vera essenza delle loro figure; ci sono poi figure comprimarie semplicemente abbozzate e molto spesso davvero inutili (la gag del giapponese ubriaco e sessuomane, ad esempio, resta tuttora un mistero per me), infilate a forza per strappare un sorriso o per giustificare questo o quell'evento; c'è anche un momento onirico (il dialogo intrauterino tra Guido e gli embrioni che lui vede già come suoi figli) che non sembra nemmeno appartenere al cinema di Virzì; più in generale, per evitare di tediare il lettore con un inutile elenco, il problema di base del film è nella scrittura poco controllata e a tratti imprecisa, soprattutto nella tranche finale del film, quei venti minuti che seguono l'amara scoperta della mancata gravidanza di lei, in cui la sceneggiatura si concede fin troppe licenze per portare il lavoro a una conclusione “happy” (nel senso ovosodico del termine). Il senso che si prova è spesso quello di una certa inconsistenza nella trama (la storiellina è piuttosto fragile, e forse il tono della commedia non è dei più indicati), e del disperato tentativo di rendere leggero qualcosa di profondamente amaro, con il risultato di creare un qualcosa che non solo “non va né su né giù”, come il regista vorrebbe, ma non lascia in bocca nemmeno un qualche gusto. Positive restano la fotografia e la prova dei due attori (anche se il personaggio di Guido è intrappolato da una caratterizzazione fumettistica, mentre a quello di Thony è offerta una maggiore libertà, scelta probabilmente dettata dallo status di attrice non professionista), diretti decisamente bene. Nella media, semplicemente, la colonna sonora e piuttosto forzati i riferimenti “indie” sparsi nel corso della pellicola. Concludendo, un Virzì minore, leggermente confuso, quasi frettoloso.

martedì 16 ottobre 2012

John Robinson "Who is this man?" (2009)

Vi ricordate del disco di Robot Koch e John Robinson che ho recensito ormai qualche mese fa proprio su questo blogghettino sfiizioso? No? Beh forse perchè nessuno mi legge e l'ho scritto quasi due anni fa, ma vi giuro che era bello, se avete voglia andatevelo a cercare. In ogni caso, quel disco era una figata e vedeva un John Robinson in forma invidiabile sgambettare felice su delle produzioni super elettroniche con la verve di sempre, per la gioia di grandi e piccini. Qui la verve resta invariata e per certi versi è ancora più splendente, cambiano invece radicalmente i suoni, cambiando il nome del produttore; senza nulla togliere al signor Koch (che per altro ho avuto modo di conoscere personalmente in quel di Ravenna qualche mese fa), questa volta John Robinson ha deciso di alzare un po' il tiro, andando a tirare giù dal letto un nome piuttosto impegnativo: Mf Domm, al secolo Daniel Dumile, mc leggendario che molto spesso si distingue anche per le sue qualità di produttore (prova ne sono i vari Special Herbs e un capolavoro come King Geedorah, interamente prodotto dal mascherato in persona). La presenza dell'uomo mascherato è percettibile non soltanto nelle produzioni, essendo tutto l'album permeato di atmosfere a lui congeniali, a partire dalla grande presenza di intermezzi parlati e presi da Dio solo sa dove, per passare poi all'impostazione “narrativa” di tutto l'album. Il concept è, come il titolo esplicitamente dichiara, un tentativo di presentare al mondo la figura di John Robinson dopo la scomparsa del precedente nickname adottato (lil sci'), utilizzando la tecnica del mockumentary sonoro, oltre che i vari pezzi rappati. Per quanto riguarda il rap io credo sempre che ci sia molto poco da dire riguardo a John Robinson, ha una bellissima voce dal tono piuttosto aspro che imprime un particolare effetto a liriche particolarmente intelligenti e spesso ironiche, la sua capacità di stare sul beat è notevole (per quanto a livello di flow questo sia un disco piuttosto omogeneo, è possibile notare come spesso sia in grado di assumere diverse sfumature a seconda del beat, si senta l'ottima “Rapsploitation”) ed è un vero piacere sentirlo reppare (ma questo succedeva anche ai tempi dei Scienz of Life). La bravura di John Robinson è soprattutto nell'evitare di strafare, fa del gran rap ed evita la trappola dell'eccessivo concettualismo (alla fine questo è un concept album, ma essendo il concept così narrativo lo sforzo richiesto all'ascoltatore risulta davvero tutt'altro che disumano), usando un linguaggio però mai troppo banale. La mancanza di fuoci d'artificio veri e propri dopo un po' si fa sentire, va detto, ma non si toccano mai punte di anonimato, e tutto procede a gonfie vele per tutte le tracce. Più stancante è invece il lavoro richiesto all'orecchio: Doom si è impegnato al massimo nel complicare le cose, le basi sono ricche di elementi, il cinema affiora qua e là così come si sentono le migliaia di dischi che hanno portato il nostro ad avere una biblioteca di suoni decisamente invidiabili, la struttura di ogni beat è imprevedibile, non tanto per la costruzione dei ritmi (abbiamo a che fare col boom bap, da lì non si sfugge) quanto per la scelta di fare in mondo che ogni brano abbia diversi momenti con un diverso accompagnamento sonoro (un po' à la Madvillain, per intenderci). Questo provoca un po' di smarrimento, specie se non siete degli ascoltatori abituali delle produzioni di questo tipo, ma se sopravvivete a questo aspetto vi godrete questo disco dalla prima all'ultima traccia.

sabato 6 ottobre 2012

Millelemmi - Nosocomio Tungsteno (2010)

Dopo il lavoro di Daretta, "Heavy mental", eccomi a parlarvi nuovamente del collettivo fiorentino che risponde al nome di Overknights. Togliamoci subito il dente e il relativo dolore: si tratta di un ottimo lavoro, che ho preferito al disco della controparte cilena del collettivo (che, ci tengo a ribadirlo, è comunque un mc di elevatissima qualità), per una mera questione di generale mood dell'album. Ciò che ho apprezzato è stato il tono meno serioso del tutto e lo sforzo di creare atmosfere musicali diverse ed omogenee al tempo stesso. Si prendano ad esempio le mie due tracce preferite: la titletrack e la fantastica "Perline", molto differenti tra loro eppure entrambe emblematiche manifestazioni dell'attitudine del buon Millelemmi, che ama divagare in maniera non necessariamente logica su dei non temi, affidandosi più a sensazioni vere e proprie che a descrizioni precise. La titletrack è in effetti esemplare in questo: un flow chicopiscopesco si fa beffe della metrica tradizionale dividendo le parole e asservendole a un fine prettamente ritmico (si veda la bellissima serie di versi finali della prima strofa: <>, con quel tung infilato dove meglio non potrebbe stare), e poco importa il fatto che sia estremamente arduo poter stabilire di cosa si stia parlando, dal momento che la fredda atmosfera del tutto dà proprio l'idea di una corsia di ospedale. Stesso dicasi per la sensazione di rilassamento di "Perline". Sullo stile di Millelemmi c'è dunque poco da dire se non che è altissimo e che è basato su un'attitudine quasi da linguista e filologo, cosa che vien fuori dai varidivertissement in toscano aulico (o antico, mi si perdoni l'ignoranza ma la mia conoscenza dello slang fiorentino è assolutamente limitata), e fa piacere notare che ci siano ancora mc's che non si preoccupino unicamente dell'aspetto semantico e della chiusura ad effetto del verso, sfruttando ogni singolo fonema che la nostra meravigliosa lingua mette a disposizione (l'italiano è una delle lingue più ricche e complesse del mondo, perché castrarne il valore utilizzando un vocabolario di circa 200 parole, giovani rappers?). Che il ragazzino di vent'anni capisca l'importanza di un autore come Millelemmi è forse utopia, ma questa recensione è qui anche per questo: non lasciatevi fuorviare dal fatto che il suo stile non sia immediatamente trascinante (e comunque sentitevi un suo freestyle per capire quanto diavolo è bravo!), c'è tanta di quella concezione artistica da rimanerci imbarazzati. Per finire, due parole sui beat. Prodotti tutti dallo stesso Millelemmi, hanno il pregio di esplorare uno spettro molto ampio di atmosfere, anche se non sempre riescono a sposarsi alla grande con l'interpretazione ("Uretra" ha una base bellissima che però non c'entra molto con il testo). Un disco importante, non immediato e probabilmente meno popolare di quanto meriti, se vi è sfuggito quando è uscito questo è il momento buono per rimediare, dato che lo trovate in rete in free download.

(da Rapmaniacz)

L300 - Rap Pantera (2010)

Ci sono vari modi di concepire la tecnica in Italia, e a mio parere non tutti coloro che usano la tecnica rientrano necessariamente nell'olimpo dei rappers bravi. E' chiaro che la tecnica distingue un mc anonimo da uno che potenzialmente potrebbe farsi notare, ma senza un corposo progetto artistico e una fortissima consapevolezza dei proprio mezzi, la tecnica finisce per essere pura energia senza controllo, vale a dire nulla. Ebbene, consapevolezza e preciso impianto tecnico sono alla base non solo di questo disco, ma di tutta la produzione a nome L300, team composto da Dj Cue (produttore) e Seca Sek (mc), attivo da moltissimo tempo (il primo demo, "Password", risale addirittura al 1998) e qui alla terza fatica ufficiale. Per tecnica, nello specifico, intendo la capacità di Seca Sek di operare continuamente sulle regole della grammatica e sulla sintassi, passando per esempio dalla semplice inversione dell'ordine soggetto verbo all'elisione di alcuni elementi teoricamente fondamentali come le particelle grammaticali, creando una sorta di passaggio onirico da un'immagine (periodo) all'altra. E' una formula tutto sommato inalterata ma sempre attuale quella proposta dal duo in questione, e in questo disco la novità principale è costituita dal lavoro svolto da Cue sui suoni. Come avveniva in "Password" e "Secasaga" (soprattutto in quest'ultimo), anche questo disco ha dalla sua una, forse, programmatica omogeneità di suoni che riescono a tracciare un filo conduttore tra i vari pezzi che i versi ostici di Seca difficilmente da soli potrebbero creare. Le influenze Elettroniche, ormai diventate trend irritante (quando non coadiuvate da gusto e misura), sono fortunatamente assenti e il gusto con cui Cue produce è decisamente Hip-Hop fino all'osso, senza tuttavia risultare scarno o minimalista. Ogni pezzo è infatti arricchito da numerosi espedienti per non perdersi nella trappola dei loop stiracchiati per un intero brano (si senta la bellissima "Seca perla"), e pur sentendosi delle ovvie influenze newyorchesi il produttore in questione riesce a imprimere la propria personalità alle sue creazioni (molti dei più noti produttori italiani non riuscirebbero a trattare la materia classica con dei tratti così distintivi). C'è poi da notare che le atmosfere sono molto diverse da quelle del disco precedente, che poteva suonare più spaziale (in maniera abbastanza erronea si è persino parlato addirittura di un disco def-juxiano), mentre questo è un album decisamente più street, come si può evincere dalle tracce "Bboy" e "Rap pantera". Una menzione particolare meritano le batterie, curatissime e mai noiose. Il lavoro di Seca è invece quello di sempre, un livello altissimo di scrittura e, a tratti, una più generosa fluidità nel Rap (è più scorrevole rispetto al passato, e questo potrebbe essere un incentivo per i neofiti e per coloro che furono spaventati dalle fatiche precedenti o dal celebre intervento su "Basley click"), uniti in un amalgama che è come sempre personalissimo e al contempo Hip-Hop come solo un classico della golden era potrebbe essere. Unico neo per un potenziale nuovo ascoltatore potrebbe essere l'interpretazione e il timbro della voce, non esattamente radiofonici ma proprio per questo incredibilmente underground (questi due signori sono tra i pochissimi a potersi fregiare di tale nomea, figuratevi che i loro volti sono un mistero per moltissimi), e se vi lasciate prendere dal suo flow ancora inconfondibile vedrete che passerete sopra a quest'ostacolo. Quanto ai testi e al loro significato, posso solo dirvi di non concentrarvi troppo su di essi, molti pensieri sono volutamente frammentati e alcuni periodi semplicemente si interrompono, con un approccio che ha del lynchiano, e proprio in quanto tali vanno considerati come un tutt'uno con le forme espressive utilizzate. Non c'è altro da dire, se non che consiglio a chiunque l'ascolto di questo disco perché, al di là dell'effetto che può generare nell'ascoltatore, si tratta di un lavoro che pur essendo in free download vanta una qualità globale maggiore di molte delle uscite discografiche supportate da major e indie label.

(da Rapmaniacz)

Dargen D'Amico - Musica senza musicisti (2006)

Stiamo per parlare di un disco importantissimo, in questa recensione, dal valore storico forse maggiore persino di "Di vizi di forma virtù", per il suo aver eretto un vero e proprio divisorio tra il fare Rap e il fare musica Rap. Entro subito nel vivo evitando lunghe premesse e spero di riuscire a convincere i lettori di due cose fondamentali: la bravura tecnica di Dargen e l'importanza di una concezione artistica. Devo dire che mi trovo in disaccordo con coloro che ravvisano un calo della tecnica nel periodo post Sacre Scuole: da questo disco in poi, Dargen dimostra di aver raggiunto una naturalezza che nessun'altro mc ha (mi prendo questa responsabilità e lo ribadisco: nessuno) e riesce a piazzare i versi dove cavolo vuole lui, la tecnica è assolutamente altissima nonostante il buon JD non si sbudelli troppo per farcelo notare, preferendo legare l'effetto fonetico al relativo significato, con l'eccezione di "Salv army III", che è forse il brano che meno mi convince, nonostante la classe. Sentitevi "La fedina penale" e, soprattutto, "Lo amore per tutti", dove vengono fatte delle cose a mio parere incredibili con una naturalezza e una libertà dal ritmo impressionanti, per capire cosa intendo quando dico che la tecnica è oramai diventata un tutt'uno col significato vero e proprio. Da quest'album in poi va anche detto che l'interpretazione (che nei due dischi successivi, e in particolare in "D'", raggiungerà dei livelli incredibili) diventa elemento fondamentale della tecnica (i fonemi topografici di "Zafferano vulcano siciliano" o la tragicità sentimentale di quel capolavoro che è "Commo una troia" devono quasi tutto a quel parlare biascicato), ed è forse la prima volta che capita di assistere a un uso davvero costruttivo nella voce in un disco Rap. Per intenderci, escluso il Neffa di "107 elementi" e "Chicopisco" (con cui Dargen ha una parentela artistica, a mio parere), non si sono mai sentiti dei testi che andassero ad interessare uno spettro di emozioni così ampio (il testo Rap medio è di solito costruito su di un'interpretazione per lo più rabbiosa e d'impatto, se mi è concesso), ed è forse questo l'elemento più importante di "Musica senza musicisti" e, più in generale, di tutta la produzione di Dargen da solista. Sulla questione relativa ai testi, invece, ci sarebbe moltissimo da dire, ma cercherò di riassumere nella maniera più efficace possibile: nonostante qualche rara punta di egocentrismo ancora latente, Dargen ha la forza e la voglia di parlare di cose strane, di farlo senza scomodare necessariamente la prima persona e di non farsi capire. Esatto, avete capito bene: a volte è semplicemente controproducente cercare di capire con esattezza questo o quel verso, Dargen tende a pronunciarlo in maniera strana o a soffocarlo con effetti e quant'altro, generando una sorta di smarrimento psichedelico (elemento che poi svanirà in "Di vizi di forma virtù" e "D'") che si inserisce perfettamente nel progetto che sta alla base di questo lavoro, pronunciato a chiare lettere nella titletrack: <>. L'impercettibilità di alcuni messaggi è da vedersi come il vero è proprio concept dell'album, la volontà di proporre musica e l'incertezza di poterlo fare come un vero e proprio lavoro sono il corpus principale del sottotesto, laddove il testo principale è una continua provocazione ai cardini della musica Rap, come ad esempio nella discussa analità universale (a metà tra il filosofico e il divertissement, parlato e non rappato). La consapevolezza di avere un concetto alla base di tutto il lavoro è forse l'altra grande forza di Dargen - e dico forse perché il tutto riesce a risultare così naturale da sembrare davvero frutto di un impegno minimo (anche se sei anni di pausa artistica non possono essere casuali). Dargen, per farla breve, a suo moda fa arte. In Italia difficilmente si riesce a considerare l'Hip-Hop come vera e propria arte, abbiamo molti mc's, pochissimi artisti e ancor meno artisti validi; ebbene, questo disco è stato, dopo il mai abbastanza elogiato "Chicopisco", il lavoro più coraggioso e ingenuamente provocatorio di tutto il Rap italiano, non il migliore dei lavori di Dargen (anche se probabilmente quello più tecnico dal punto di vista del flow), ma sicuramente una tappa fondamentale per chi scrive, persino più della fase cantautoriale dei due album successivi (a proposito, ritengo "D'" un capolavoro), che risultano essere più maturi ma meno di rottura. A chiunque sia a corto di idee, lo consiglio. Ah, dimenticavo una cosa fondamentale: la musica! Ce n'è tanta, non è sempre perfetta, in alcuni casi è un po' troppo incasinata, ma ha un pregio: è originale, nessuno ha mai avuto il cattivo gusto/coraggio di rappare su ritmi del genere che, per la maggior parte, vi lasceranno perplessi; ma non lasciatevi ingannare e tralasciate pure quella, è un disco di Dargen, dopotutto, dovete prendere il pacchetto intero e provare a capire come mai certe cose risultano credibili solo se messe in mano a lui. Non c'è votazione, ma ha il mio 9, lo dico a titolo infomativo.

(da Rapmaniacz)

THE GIFT OF GAB - THE NEXT LOGICAL PROGRESSION (2012)

Vi capita mai di capire, dopo un po' di ascolti, che il componente fondamentale di un gruppo sia quello che invece ritenevate secondario? Di solito questo tipo di verità viene a galla nel fatidico momento in cui le strade si dividono e i due prendono strade diverse; in questo caso è bastato un disco per capirlo e la famosa seconda chance che si concede ai migliori si è rivelata foriera di brutte notizie. Abbiamo quasi perso Gift Of Gab, ragazzi, ed è inutile darsi da fare col defibrillatore o altre cure. La soluzione si chiama probabilmente Chief Xcel, ma cerchiamo di non fare i nostalgici e vediamo perché "The Next Logical Progression" non è esattamente il top. Anzitutto la canonicità delle basi e il modo in cui vengono trattati i suoni fanno pensare che deve essere successo qualcosa di molto grave negli uffici della Quannum, da un po' di tempo a questa parte (si vedano anche l'orribile ultimo disco di Dj Shadow, nonché i suoi insopportabili live degli ultimi tempi - e lo dico con tutto il rancore possibile per una trasferta inutile in quel di Milano). La complessità tipica dei dischi dei Blackalicious viene completamente meno e ci ritroviamo di fronte a brani che, nella migliore delle ipotesi, offrono la solita miscela di Funk e sintetizzatori, senza tuttavia colpire mai nel segno (si veda il deludente brano con George Clinton, ad esempio, o "Toxic", semplicemente insopportabile), nella peggiore raccattano produzioni svogliate che sembrano composte con una tastierina usa e getta. Il Rap non riesce ad emergere neppure un po', le indiscutibili qualità di Gift devono chinarsi alla bassezza delle strumentali (nonostante in un paio di occasioni Headnodic, che è tutto tranne il mio producer preferito, ci provi a risolvere il macello combinato da G Koop), sebbene i testi continuino ad essere interessanti e caratterizzati dalla grande dimestichezza che l'mc ha col linguaggio. Non ci sono molte parole da spendere in difesa di quest'album, il solo consiglio che posso darvi è di non partire da qui, se siete dei neofiti, e di saltarlo a piè pari, se siete dei fan di vecchia data. Spiacente, ma è un'insufficienza piena, con la speranza che il prossimo torni ad essere un disco dei Blackalicious.

(da Rapmaniacz)

Destruments - Surpassing All Others (2011)

Nelle cosiddette compile realizzate da un solo team di produttori, ho sempre creduto molto poco. Più che altro per una questione di pigrizia, visto che ho spesso trovato molto impegnativo dover concentrare l'attenzione su un unico pezzo piuttosto che sul mood globale dell'intero album. In questo caso ho preferito concentrarmi sui suoni, più che sul Rap (sono davvero moltissimi gli mc's e se la cavano tutti egregiamente, non c'è la traccia bomba del disco, anche se mi sento di segnalare CF, che fa proprio un bel lavoro), per cercare di rendere giustizia il più possibile a questo duo di musicisti/produttori (in realtà ho trovato notizie discordanti riguardo quest'aspetto: c'è chi parla di trio e chi di duo, forse includendo anche Adam Wills) che rispondono al nome di Kelly Finnigan e Sean Wilson. E' anzitutto interessante notare come un disco che suona così classicamente Hip-Hop venga fuori da un gruppo di musicisti veri e propri, solitamente restii ad affidarsi alla forma rigida del beat. "Surpassing All Others" è difatti un disco che suona molto classico, possiamo banalmente dire che è soprattutto percepibile una matrice Soul, più che in molte altre uscite. Sono molto intriganti i brani con atmosfere più smooth, come "The ZeeOheNeE", "Fly Away" (grande il synth in questa traccia!) o "Got Love", tutte suonate molto bene e con delle strofe più che piacevoli, così come gli ottimi interludi strumentali. Per mia personale attitudine, tendo a preferire quei brani rispetto alle tracce più aggressive, anche se ci sono diverse piccole chicche sparse in giro per il disco. Per esempio le batterie sono quasi sempre al top della forma, come in "Transworld Express" o in "Forever Mine", e sono molto belle le atmosfere di brani come "Reflection" e "That Fire", forse le due tracce che meglio si adattano al Rap dell'mc di turno. Si tratta di un buon disco, per farla breve, anche se a mio parere si è un po' sprecata l'occasione di realizzare musica che si distacchi da una pur pregevolissima forma canonica di beat. Per spiegarmi meglio: avrei voluto più un approccio alla Herbaliser (tutt'ora il mio gruppo preferito, da questo punto di vista) e una minore concentrazione di mc's (tutti notevoli ed è per questo che non mi voglio soffermare sul loro ruolo, ma se volete un giudizio personale vi dico che la mia top tre è: CF, Has-Lo, Killah Priest), ma ciò non toglie che per chi cerca un sacco di ottimi rapper su dei beat costruiti molto bene, questo sia decisamente il disco da avere o da farsi regalare. Per concludere, aggiungo che sono molto curioso di vedere questi signori dal vivo da qualche parte nel mondo, perché credo che l'aspetto live possa risultare fondamentale per apprezzarli fino in fondo.

(da Rapmaniacz)

Distrakt - Distraktions (2006)

Distrakt è una piacevolissima scoperta che ho fatto di recente. Devo dire che il bellissimo pezzo sentito sull'album di Git, che lo vedeva ospite, lo valorizza molto più di gran parte dei pezzi presenti in questo disco, che è comunque un prodotto interessante. Di che si tratta, di preciso? Di un mc che non è solo un mc, ma anche un produttore, e non pago di ciò è pure un ottimo regista di video musicali (guardate cos'ha fatto per la cara vecchia Georgia Anne Muldrow). E' un ottimo mc, tratta temi interessanti senza renderli pesantemente retorici, si prenda la bellissima "Stereotypes", e ha delle idee davvero divertenti, come nel caso del ritornello cinematografico di "Money Yo", dove viene costruito una specie di dialogo da film con le pistole. E poi c'è l'ottimo beat di "Nothing Worst", c'è la parentesi molto Wu-Tang di "#!*@ Ain't Sweet" (a me ha ricordato spesso molte produzioni old style di RZA). C'è, pure, una gustosissima traccia che incita al freestyle, "Dirty Record" (bellissimo il beat, e scusate l'eccesso di superlativi in questa recensione). C'è il Rap di Distrakt, che è solidissimo e molto tecnico, pur essendo uno di quelli che il beat lo cavalca piuttosto che scalarlo. Ci sono alcuni momenti di funambolismo come le già citate "Stereotypes" e "Dirty Record" (specie quest'ultima, una gran prova), vere lezioni di stile e poi c'è...diciamocelo chiaro, ragazzi, ho serie difficoltà a trovare dei grossi difetti in quest'album. Il fatto è che le tracce che ho citato sono davvero ciò che mi piacerebbe ascoltare in un disco di Rap non avanguardistico, mentre le altre sono semplicemente delle ottime tracce meno spettacolari su beat più canonici (ad esempio "Drugs", un buon testo su quella che è forse la produzione che meno mi convince dell'album). L'unica cosa che mi viene da dire è che i brani sono davvero tantissimi e in mezzo a un livello medio alto, sono poche le cose che davvero si elevano e, nel caso del mio personale gusto, si limitano alle gustose chicche sopra citate. Non confondetemi, Distrakt se la cava egregiamente in ognuna delle tracce di "Distraktions", ma si sente la mancanza di un numero maggiore di quelle piccole genialate di cui sopra, a favore di una risoluzione più prevedibile. E' però davvero un difetto trascurabile, poiché gli scarti di quest'ottimo album potrebbero costituire già di per sé un disco che molti vorrebbero poter fare. Consigliato agli mc's tradizionali per il suo riuscire ad essere per nulla apocrifo eppure originalissimo, e agli amanti delle piccole genialate, appunto, da trovare in mezzo a tantissime canzoni di pari riuscita. Buon ascolto!
(da Rapmaniacz)

Headnodic - Red Line Radio (2011)

E riecco qui Headnodic, che si ripresenta al pubblico dopo l'uscita coi suoi amici cani (che non mi aveva personalmente convinto del tutto) con quello che è il mio incubo ogni volta che si tratta di scrivere una recensione: un discone di diciannove tracce con uno sproposito di mc's che, per altro, conosco solo fino a un certo punto. Anche in questo caso il mio approccio è lo stesso usato per altri album del genere: prediligo parlare dell'aspetto produttivo, trattandosi di un disco di un produttore e non di mille mc's. Rispetto a quello dei Destruments, recensito in precedenza dal sottoscritto, devo dire che qui abbiamo meno ricerca costante di classicità vera e propria (e la cosa non può che rendermi felice), seppure l'utilizzo di campioni storici fa capolino tra una traccia e l'altra. Il tocco di Headnodic, a mio parere, manca un pochino di personalità nonostante sia innegabile che il signore in questione, come scritto anche altrove, sappia quali tasti spingere. Siamo in presenza di un disco con brani che potrebbero essere quasi tutti ottimi singoli, ma l'idea che mi sono fatto è che manchi un po' di quel tratto distintivo che potrebbe fare di Headnodic un nuovo Dj Shadow (sarebbe in effetti bello riavere indietro il vero Shadow, ovunque si sia cacciato). Forse il problema è proprio nella varietà eccessiva del tipo di suoni, sembra che la parola d'ordine di tutto il lavoro siaversatilità, e su quel fronte direi che non si può davvero dire nulla di male. Tuttavia, credo che il disco di un produttore debba stabilire immediatamente con che tipo di artista abbiamo a che fare e qui un pochino si arranca nel cercare di capirlo. In ogni caso, questa è una di quelle famose questioni da criticoni ed esteti, la realtà è che ci sono moltissime tracce davvero ben fatte. Prendiamo il terzetto iniziale dei brani, che potrebbe benissimo costituire l'inizio perfetto per un buon album della Bay Area (fa piacere risentire Lateef che dice il vero assieme al suo amico giapponese, dopo tanto tempo), con una soluzione di continuità che è davvero piacevole. Gran bei pezzi, ottimo mood soleggiato e una produzione che fa il suo maledetto dovere. Però, allora, come mai da qui si arriva fino a un capolavoro incredibile come "Pepper's Lullabye" (una strumentale di bellezza logorante, semplicemente da brividi), passando per tracce dal gusto Hip-Hop classicone (in realtà si fa per dire, ma sicuramente il beat-box campionato è un ammiccamento ai bei tempi che furono) come "Cough Drop" e "Durty Diamonds"? E in tutto questo, non stona almeno un po' un ottima traccia come "Viles" (con un Myka 9 in forma assolutamente più che discreta), che sembra venire da un altro disco? So che la mia può sembrare pignoleria e che per un ascoltatore tipo di musica Rap forse possono contare di più le rime, ma su quello non ho molto da dire, se la cavano tutti egregiamente (meglio che nel disco dei Destruments, che ha in comune la presenza di Othello), tanto più che nell'elenco figura qualcuno dei miei mc's preferiti di sempre - perciò non potrei che dirne bene. C'è anche da aggiungere che non tutte le basi rendono giustizia agli mc's, come ad esempio per "Turn Your Radio Up" e "The Mush", la prima un pochino troppo incasinata e la seconda molto meno originale di quanto ci si potrebbe giustamente aspettare. Il gusto per le belle linee di basso e per delle tastierine strane qua e là sono un tratto distintivo, ma mi sento di dire che da Headnodic mi aspetterei un disco più suo, magari anche solo strumentale, visto che l'apice è raggiunto proprio da un pezzo non rappato che non ha nulla a che vedere col resto del disco. Merita un 3,5, ma con cinque tracce in meno e un po' meno di camaleontismo avrebbe tranquillamente ottenuto un 4.
(da Rapmaniacz)

Git - Imagination (2011)

Di Git vi voglio dire pochissimo. Perché dovete comprarlo, carissimi. Supportatelo, ascoltatelo, prendetelo on line, fatelo vostro. Siete degli ascoltatori di Rap? Bene, questo disco è per voi, e vi spiegherò poi perché. Siete dei cultori del suono alternativo (termine pessimo, ma spero di rendere l'idea)? Bene, questo disco è per voi, e vi spiegherò poi perché. Quello che vi spiego ora è, invece, il motivo per cui sentivo la mancanza di un disco del genere. Da molto tempo quando si parla di sperimentazione si vuole necessariamente fissare un nuovo canone di partenza da cui ripartire, mettendoci magari qualche influenza Dubstep (sì lo ammetto, odio la Dubstep, mi dispiace, è più forte di me, ma lo riconosco come un limite) o un po' di schitarrate e qualche synth (suonato malamente, se possibile), o si predilige l'asimmetria, e insomma, si ricercano le soluzioni più strane e impensabili. Ecco, qui di tutta quella bella attitudine appena citata, non vi è traccia. Eppure è un disco freschissimo. Se piangevate la morte artistica di Dj Shadow, smettete di farlo e date un ascolto anche solo alle prime quattro tracce di questo disco (intro esclusa), campioni vocali estesi e celebrazione, anzi, venerazione del breakbeat all'ennesima potenza, in pratica: rielaborazione del classico come nemmeno uno studioso di filosofia estetica potrebbe teorizzare. Io non sono un esperto ma posso immaginare che venga tutto da un'impressionante collezione di dischi, come testimoniano anche le notizie web su questo produttore. Soprattutto, rispetto a molti altri dischi magari più avanguardistici, si respira (come si respirava in un capolavoro come "Endtroducing.....") un'attitudine al boom bap davvero sentita, del resto siamo di fronte a uno che faceva sentire i suoi beat a RZA quando aveva quindici anni, per intenderci, e che con l'aggiunta del suffisso Beats al suo nome ha sfornato beat tradizionali per molti artisti. E questo è il motivo per cui un ascoltatore di Rap dovrebbe ascoltare questo disco, ma non solo. Prendetevi la traccia di Distrakt, giovani rappers, e ditemi se non è una figata totale (scusate la terminologia un po' spicciola), cose che sembrano uscite da un King Geedorah ispiratissimo e trattate con, diciamolo, molta più ironia (attenzione, chi scrive è uno dei più grandi fan viventi dell'uomo mascherato!), si uniscono a una rappatadoomesca ma comunque gradevolissima. E magari ci fosse solo questo! Abbiamo poi autentiche perle per muovere il culo (non so se si può dire culo, ma in caso sostituite pure questa parola con qualsiasi altra parte del corpo, tanto la muoverete!) come il singolone "If You Just Make Love To Me", tra i pezzi più divertenti mai sentiti in vita mia (quanto vorrei poter recuperare tutti i dischi originali da cui ha preso i sample!), o brani più funkeggianti come "Loose It". E' difficile descrivere l'amalgama che fa funzionare il tutto, ma al di là del semplice diggin' direi che è riscontrabile una vera anima lisergica che riesce a far risultare freschi elementi davvero classici ("Remote Control" è un buon esempio di tutto ciò), e persino il bellissimo artwork testimonia questa componente (a mio parere una copertina perfetta come poteva esserla quella dei dischi di Koushik e di Paul White). Mi fermo, avevo promesso di non dirvi troppo e già l'ho fatto, sappiate solo che consiglio "Imagination" a tutti gli ascoltatori di qualsiasi genere musicale, perché è proprio una delle migliori testimonianze del godimento nell'ascoltare e nel produrre musica (pur non essendo nulla di mai sentito eh, sia chiaro, non viene stravolto nulla, è solo che il livello è immenso). Un enorme grazie alla BBE, che con questo disco, con quello di Benny Tones e con le cose di Mathias Stubo, si conferma ufficialmente la mia etichetta preferita degli ultimi tre anni.
(da Rapmaniacz)

Braille - Native Lungs (2011)

La dicitura Rap Cristiano mi ha sempre fatto sorridere, quando non addirittura irritare. Non ho mai sentito parlare, ad esempio, di Islam Rap e non mi sembra che gli Stati Uniti siano privi di rappers seguaci del corano, di conseguenza mi sembra poco congruo parlare di un genere definito come Rap Cristiano, poiché si tende a sviare l'attenzione da quello che dovrebbe rimanere l'elemento più importante: la musica. Dunque, nel parlare di Braille e del suo ultimo disco, preferisco focalizzarmi su altri aspetti. Quello che emerge è l'intento di fare un Rap costituito di pensieri molto chiari e spesso maturi, evitando accuratamente di incappare in un'eccessiva cerebralità, come la traccia di apertura, "Native Lungs", dimostra apertamente, senza per altro chiamare in causa la questione relativa alla fede dell'mc ma soffermandosi sulla propria nascita artistica, citando i suoi eroi e le sue prime esperienze. Nel corso di tutto il disco più che di fede si parla, in effetti, di redenzione e di peccato, Braille si limita a testimoniare la sua personale esperienza di fede, equamente divisa tra l'Altissimo (o chi per lui) e la musica Hip-Hop. Ci sono momenti, a onor del vero, leggermente eccessivi, anche per colpa del beat, come la gloriosa "We Will Remember" o la rockeggiante "Death In Me", entrambe parecchio malriuscite dal punto di vista delle basi. Sembra che le cose migliori vengano raggiunte dai pezzi che si avvalgono del boom bap più classico (due esempi: la bellissima "Native Lungs" e le ottime "The Hardway" e "Nightmare Walking", quest'ultima benedetta da un campione vocale di Ice T preso integralmente e che fa il suo dovere alla grande), dove l'amalgama tra flow e base si realizza nella migliore delle forme possibili. Dal punto di vista strettamente musicale ho poi apprezzato particolarmente "Step Up", che ha un bellissimo giro di piano e un'atmosfera perfetta. A livello di Rap c'è, positivamente, poco da dire: Braille ha un'ottima voce e un gran bel flow, nonostante non sia nelle sue corde la tortuosità tecnica che a volte arricchisce degli album che altrimenti risulterebbero piuttosto noiosi. Qui di momenti noiosi veri e proprio non ce ne sono, la qualità è omogenea, forse manca una vera e propria perla, ma ogni brano (a parte tre o quattro episodi sparuti) ha la sua ragion d'essere, soprattutto quando Braille evita la trappola dell'enfatizzazione (la già citata "We Will Remember", ma anche "48 Prisons"). Mi sento di consigliare quest'album a tutti gli appassionati di un Hip-Hop non apocrifo, tradizionale e fatto soprattutto di buone rime, qui ne troverete parecchie (ne ho scovate persino io che non parlo bene l'inglese, il che è un incentivo anche per chi non ha molta dimestichezza con la lingua), a patto che chiudiate un occhio sugli eccessi spiritualistici che ogni tanto si palesano. A tutti quelli in cerca dell'avanguardia consiglio di non bussare a questa porta, o magari di bussare e provare a gustarsi il tutto con la dovuta prudenza, magari partendo da brani interessanti come "Rhymes On Everything" o "Native Lungs". Buon ascolto!
(da Rapmaniacz)

BLU - No York! (2011)

Ragazzi, non ci crederete ma Blu ha fatto un disco! Ironia a parte, credo che questo sia il terzo o il quarto in un lasso di tempo relativamente esiguo, e ciò fa di lui uno dei rappresentanti più prolifici dell'Hip-Hop contemporaneo. Dote di per sé positiva? Non necessariamente, è molto difficile sfornare continuamente capolavori senza il dovuto periodo dedicato al concepimento del proprio progetto musicale, e bisogna essere davvero dei geni per non incappare nelle insidie dell'approssimazione. E' quello che succede in questo caso? Nì. Non è che qua si stia facendo un completo buco nell'acqua, chiariamoci, "NoYork!" ha diversi brani interessanti e la classe di Blu al microfono è ben tangibile e udibile, solo che ogni tanto fa un effetto strano (o brutto, a seconda dei gusti) sentirlo rappare su ritmi al sapore di 8 bit come nel caso di "SLNGBNGrs" e a volte può capitare che o il beat non sia dei migliori o che semplicemente l'amalgama non si realizzi. A volte, invece, le cose vanno alla grande. L'opening track, ad esempio, è assolutamente uno dei migliori brani di apertura possibili, soprattutto grazie all'apporto di Flying Lotus per quel che riguarda l'aspetto musicale e l'atmosfera al gusto di smarrimento da cannabinoidi è davvero perfetto. E anche quando Samiyam ci regala perle come la traccia in compagnia dei Sa-Ra Creative Partners ("Never Be The Same"), si ha la ragionevole speranza che tutto il disco suoni in quella maniera, per quanto si tratti di sonorità più o meno nuove per Blu e per i suoi aficionados. Sfortunatamente poi capita di trovare dei pezzi assolutamente fuori luogo come la famigerata e rumorosissima "Everything OK", stranamente prodotta da Flying Lotus (è la prima produzione in cui lo sento affrontare ritmiche prossime alla Techno), e le due ottime apparizioni di Daedelus che potrebbero vivere benissimo di vita propria e che, invece, mal si amalgamano con il Rap di Blu (peraltro le due tipe al microfono non sono esattamente delle nuove Jean Grae). Le cose migliori di quest'album vanno ricercate nei pezzi più eleganti e meno rumorosi (si prenda il succitato pezzo in 8 bit), come ad esempio la bellissima "Spring Winter Summer", con un ottimo cantato di Jimetta Rose, e l'altrettanto gradevole "My Sunshine", o anche "And The Jazzmen" e "Ronald Morgan", i cui suoni lasciano davvero poco spazio all'immaginazione per quello che concerne la paternità del tutto. Il resto è di livello leggermente o pesantemente, a seconda dei casi, inferiore. La cosa che più infastidisce è un po' questo chiaroscurotra le varie tracce, oltre che i featuring non sempre indispensabili; non ci sono pezzi imperdibili, ma molti scivoloni (è un termine forte, nessun pezzo è davvero inascoltabile, sto un po' enfatizzando) sono poco perdonabili, soprattutto alla luce dei bei momenti di "NoYork!" (che sono comunque, di pochissimo, in maggioranza rispetto agli altri). Non è un album da avere a tutti i costi e se siete dei fan dell'mc potreste rimanere delusi dalla direzione presa (anche se sembra si tratterà di una tantum, per cui dormite sonni tranquilli!), se invece siete abituati ai suoni più scuri ed improbabili questo disco vi lascerà ugualmente delusi, essendo comunque molto più pacato di quella che si potrebbe definire l'ala estrema dell'Hip-Hop underground. Massimo rispetto per la volontà di esplorare strade diverse da quelle usuali, ma ritengo che la biosfera di Blu sia situata altrove, come egregiamente dimostrato in precedenza. Due righe, infine, sull'edizione: pare che Blu abbia regalato delle copie promozionali di "NoYork!" durante il Rock The Bells, con conseguente diffusione online del tutto; la Warner, che doveva far uscire il disco, l'ha presa un po' maluccio e alla fine l'mc ha dovuto ripiegare sulla New World Color Records, confermando però le quattro cover differenti e il cartonato.
(da Rapmaniacz)

piccola precisazione per i post futuri

Da qui in poi inserirò le recensioni che pubblico anche su altri siti, specificando sempre la provenienza. Ciao a todos!

giovedì 4 ottobre 2012

Alessandro Fiori "Attento a me stesso" (2010)


La fortuna/sfortuna di essere completamente indipendente (c'è un altro aggettivo per esprimere meglio la mia posizione: ignorato) nei confronti di qualsiasi scena musicale emerge in quei rarissimi casi in cui si scopre con tantissimo ritardo un talento che per un motivo o per l'altro hanno invece scoperto tutti gli altri. In questo caso si parla dell'enorme talento di Alessandro Fiori, splendido 35enne aretino, ex voce di un gruppo particolarmente noto ai fan dell'indie italiano, vale a dire i Mariposa. Il mio giudizio sulla band in questione è da sempre ambivalente, diviso tra l'ammirazione per una capacità di suonare indiscutibile e la perplessità di fronte alle eccessive pippe mentali per quello che riguarda la struttura delle varie canzoni (escludendo l'album omonimo, il disco più pop). Dell'esperienza accumulata in quel gruppo, Alessandro si porta dietro un numero di bravissimi musicisti ospiti in questo album (si vedano ad esempio Enrico Gabrielli ed Enzo Cimino, ma anche Marco Parente o il buon Alessandro Stefana) e un immaginario in fase di formazione che qui raggiunge la sua completezza. Che Alessandro abbia tutti gli strumenti per essere un CANTAUTORE con tutte le lettere in maiuscolo è evidente dalla prima straordinaria traccia in cui il lavoro sul testo va ben oltre la stesura di parole adatte alla relativa melodia. C'è tutto un preciso personaggio letterario nelle parole del signor Fiori, distante dalle fotografie realistiche che potrebbero offrire molti degli attuali cantautori, esente da invecchiamento e tuttavia mai abbastanza giovane per essere ingenuo, pensieroso e con lo sguardo alla finestra e sui piedi. Questo nelle prime tre tracce, nella bellissima “Senza le dita” (da ascoltare con il rischio commozione se avete dei particolari trascorsi con Bacco e Venere) e nella finale “Trenino a cherosene”, tutte colpevoli di affossare il resto del disco, composto di buoni brani ma immensamente meno validi come manifestazione del talento dell'autore. Non so se sia una questione di ispirazione o di eccesso di essa (più probabile la seconda cosa), ma in tracce come “Lungomare” e “la Vasca” siamo di fronte a dei bei pezzi che poco o nulla hanno a che fare con l'enorme autore delle altre tracce e ancor di meno con molto del lavoro svolto in compagnia dei Mariposa. Fermo restando che si tratta comunque di brani scritti bene e cantati meglio, è bene specificarlo. Quello che manca ai brani più deboli è sicuramente la dimensione intima offerta dagli altri pezzi, capaci di far venire alla luce tante piccole sfaccettature della creatura “letteraria” che Alessandro ha in qualche modo creato. É l'essenziale che si perde, nel corso della durata del disco, teoricamente troppo breve per annoiare come invece ogni tanto avviene (non succede spesso). Si tratta del lavoro imperfetto di un artista che ha un talento davvero immenso, una voce perfetta per quello che vuole fare (sì, ok, ora vi dico quali echi sono ravvisabili, altrimenti la recensione non vi piace: Gino Paoli e Sergio Endrigo, ma ci arrivavate pure da voi!) e una penna più volte impugnata dalla Musa stessa, perciò mi sento di consigliarvelo, poiché in quella manciata di brani riusciti viene invalidato più di un goffo tentativo di essere cantautori negli ultimi dodici anni. E andate a vederlo dal vivo, perché spacca ed è bello da vedersi!


sabato 28 aprile 2012

Guida simpatica per lettori reppisti


Scrivo queste righe a seguito di una conversazione epistolare leggermente “accesa” (ma assolutamente civile e persino giustificabile, ci tengo a dirlo anche per rispetto dell'altro interlocutore) con un ottimo esponente dell'hip hop italico. Se ho ben capito la posizione del ragazzo con cui ho discusso, io (e con me altre persone) avrei un approccio sbagliato nei confronti di questo genere, tendendo a elucubrazioni eccessive laddove potrei limitarmi a un semplice ascolto. Sto interpretando, non mi sono state rivolte queste esatte parole, perciò mettete in conto che possa anche aver travisato tutto. In ogni caso, questa stimolante controversia mi ha fatto riflettere parecchio e penso che sia giusto “difendermi” da delle perplessità che potrebbero, giustamente, avere in moltissimi, leggendo le mie recensioni qui o sui siti coi quali collaboro. Vorrei semplicemente chiarire che NON sono un critico nella stessa misura in cui non lo è praticamente nessuno della mia generazione, visto che non è che ci siano scuole apposite per recensire con cognizione di causa (se ci fossero le farei subito), e le persone che potrebbero parlare per esperienza diretta devono badare alla famiglia o semplicemente non hanno la minima voglia di mettersi a scrivere di musica (o la possibilità, penso all'esperimento Superfly e a persone come David Nerattini, che da sempre ha il massimo della mia stima). Mi limito a esprimere PARERI personali, e a cercare di argomentarli partendo dalla mia personale concezione di musica, che non ha nulla a che vedere con le quattro discipline e con una militanza nell'underground o nel circuito dei centri sociali. Sono un ascoltatore di musica che ha scelto di porsi in maniera neutra nei confronti di un genere come l'hip hop ignorando tutto quello che ha a che fare con la scena (ci sono stato dentro fino ad almeno quattro anni fa, per poi optare per un allontanamento più o meno drastico), da circa quattro anni, e preferisco basarmi su dati oggettivi piuttosto che su giustificazioni idiote come “ rappresenta il vero hip hop” e via dicendo. So che può sembrare una contraddizione parlare di oggettività in un ambito governato dal soggettivo come quello delle recensioni, ma giudicare un disco rap come si giudicherebbe un qualsiasi altro disco è secondo me il modo migliore per fare sì che questo genere venga finalmente rispettato e non trattato nella maniera becera come l'Italia televisiva sta facendo da anni (e non me la sto prendendo con Spit, o per lo meno non più di quanto potrei prendermela con i due contest più famosi in Italia in questi ultimi dieci anni). Perciò se di un disco mi interessano più le idee innovative, il tipo di suono, la produzione artistica e il concept artistico, che non invece gli aspetti storici della cultura, nessuno si arrabbi; perchè quello è il minimo sindacale per essere considerati artisti e non semplici rappers. Credete che i Beastie Boys, o Pete Rock, o gli ATCQ non abbiano tutto questo? O anche il Wu Tang (se non c'è un concept lì, dove?) o i Cypress hill. Non si tratta solo di una serie di negroni o ispanici con la fedina penale sporca che hanno trovato salvezza droppando rime e chiudendo barre, ma di ARTISTI. Eminem è (o è stato) un artista, per quanto vi faccia schifo, e questo lo rende più interessante di uno qualsiasi di quei rappers italiani che nella migliore delle ipotesi lanciano proclami contro il premier corrotto o parlano della loro vita durissima nei quartieri, ben guardandosi dal creare qualcosa di unico e personale. Il mio tentativo è quello di parlare di un genere senza avere dei filtri stupidi come il “rispetto” (leggi: timore) nei confronti di questo o quell'esponente, concentrandomi su una scala di valori che è quella che mi sembra valere per gli altri generi. Perciò mettetevi il cuore in pace e non arrabbiatevi se vi sembra che mi manchi questo o quel fondamentale per esprimere un giudizio, non ho intenzione di scrivere per i b boys, auspico che il genere assurga alla dignità che gli spetta, e che possa essere trattato con la grammatica propria di una recensione esterna alla scena. Se la cosa vi lascia perplessi resto a vostra disposizione, la mia mail è kafkianolifestyle@gmail.com , ma consideratevi avvisati da questo post: il mio approccio è quello sopra descritto. A presto.

Ps: stessa cosa per i film che recensirò qui, sono un dilettante e un velleitario, scrivo di quello che mi piace e se vi capita di leggerlo mi fa piacere, sicuramente non vi romperò le scatole postandovelo su facebook, voi non prendetevi male se non dimostro una conoscenza enciclopedica del meraviglioso cinema italiano del 1947)

venerdì 30 marzo 2012

il mio grande ritorno sulla scena dei bloggers: MariaAntonietta, il disco di MariaAntonietta. yo!

Maria Antonietta è, o dovrebbe essere, la ragazza di un ragazzo che conosco. É anche una tizia che non mi ha voluto mettere “Kooks” di David Bowie (che era la nostra canzone quando c'avevo la ragazzetta ed ero bello in quanto magro) durante una specie di digei set prima di un concerto di quello che poi sarebbe diventato il ragazzo. Il che la rende o una santa o una stronza, a seconda dei punti di vista, ma diciamo che mi ha salvato la vita, a suo modo, quella sera. Quindi bella per Maria Antonietta e per la sua maglietta col cuore sulla mela grande (mi piace ricordarla così). Oltre a queste cose, però, la Leti (si chiama Letizia, come la qualità) di Fano (o di Pesaro, boh!) è anche una fottuta rock singer con litri di sangue e non so bene quanti anni di preciso (sto cercando di ricordare a memoria il suo comunicato stampa, o quello che è), che ha fatto delle robe prima in un duo dal nome ambiguo (non ho mai capito se Polsi Giovani abbia qualche riferimento onanistico, chissà!) e poi da sola in inglese. E poi eccola che arriva qui, pimpante come la rossa Pippi dalle lunghe calze, armata di occhiali da sole e lentiggini, con un disco nella lingua dei suoi genitori, amici, conoscenti, parenti, nemici, noi. Da quello che mi hanno detto il disco in inglese era una figata e questo dovrebbe essere quello commerciale, ma non so se crederci, però non ho modo di saperlo, visto che il disco in inglese non mi sono preoccupato di comprarmelo (sono una merda, lo so). Io posso dire una cosa: MariaAntonietta è molto brava nel gestire sé stessa e il suo personaggio (non so sia gestita o se si gestisca, a dire il vero), il concept è chiaro e declamato in tutte le sue sfaccettature nel corso del suo primo album italico, con tanto di rischio ridondanza costantemente sulla propria testa. Quanto ci sia di costruito e quanto ci sia di assolutamente autentico non sta a me dirlo, ma devo dire che dal punto di vista del mercato funziona. A patto che abbiate una cinquina di anni meno di lei e circa dieci meno di me, però. E che non odiate il maledettismo. Non c'è nulla di male in questo "calcolo" da parte sua, se si fa una cosa per lavoro la si fa guardando anche al proprio target, non sarò io a deprecare la Leti per questo. Il punto è un altro: i versi di MariaAntonietta, la sua voce, la sua musica, al di là di essere un ottimo strumento di marketing, sono qualcosa di davvero ragguardevole? É abbastanza difficile rispondere a queste domande, più che altro per problemi legati alla mia onestà intellettuale, fare cioè in modo che la mia naturale antipatia di stampo misogino non inquini il mio giudizio. Partiamo dai testi: "MariaAntonietta" per la maggior parte delle tracce mi irrita fortemente, ma se fossi una persona che deve avere a che fare con un disagio psicofisico che si presenta puntualmente ogni mese probabilmente potrei persino apprezzare questo album. Perchè è pieno di quella fastidiosa irrazionalità tipica di certi personaggi femminili, ha dei bei modelli femministi e dice con disinvoltura la parola “scopare” (suppongo sia una sorta di rivendicazione, ma non so di cosa), parla di questioni di cazzo (o di amore, fate voi) come se fossero fondamentali e si permette tutta una serie di stupidate (in senso buono) che se le facessi io verrei presi a calci nel culo fino a Marte. La musica fa il suo onesto dovere senza particolari picchi e/o rischi di sorta, gli arrangiamenti sono azzeccati (non ho capito bene se li abbia curati il buon Damiano Simoncini oppure no) e funzionano, nonostante il tutto sia, io credo, consapevolmente in ritardo di una quindicina di anni sul resto del mondo della musica (sembra essere diventato il modo più semplice per risultare originali, paradosso notevole), ammicando alla signora Amore in Cobain (ecco lei sì che mi sta sulle palle) e Pigei varie. La voce è iritante, ma è tutto voluto, sono scelte artistiche, non è che canti così perchè è stonata, o almeno non credo. Per farla breve, anche per ragioni meramente anagrafiche questo album NON è il disco della maturità, ma è il segnale chiaro e forte del fatto che a Letizia non manca quello che molti artisti oggettivamente più bravi di lei non hanno ancora trovato: un concept di base. Sfortunatamente questo concept è anche la croce di “MariaAntonietta”, il disco intendo, perchè una volta assorbito quello resta davvero ben poco di tutto il resto. Se dovessimo fare una cernita di tracce vi direi che quelle da evitare sono il singolone (non me ne voglia nessuno, ma è proprio insopportabile) e “Maria Maddalena”, mentre le prime tre tracce e l'ultima sono quasi delle piccole perle (specie l'opening track), i pezzi più pop sono trascurabili mentre quelli “punk” sono simpatici. Avrei voluto meno ketchup e più sangue vero e proprio, da questo album, e un po' meno di “io” che fa rima con “mio”, meno autoreferenzialità, per essere più chiari. Complimenti per la personalità artistica ma la mautrità è ancora un po' lontana. Ah un'altra cosa: le interviste. Sono quelle che rovinano un personaggio in fondo delizioso, ripartirei da lì per conquistare i pochi che proprio non la digeriscono :-)