venerdì 26 ottobre 2012

"Tutti i santi giorni", Paolo Virzì (2012)


Che Virzì sia, o sia stato, un regista importante per il cinema di larga fruizione (perché di questo si tratta, ricordiamocelo, senza ovviamente dare al termine un'accezione negativa) non è cosa da mettere in dubbio. É stato autore di uno dei più acclamati racconti di formazione del nostro cinema degli ultimi 20 anni e ha sempre affrontato in maniera intelligente temi attuali con il tono della commedia leggera. Filologicamente corretto e al contempo apocrifo nei confronti della commedia all'italiana e della nobile tradizione che questo genere ha, si è sempre mosso su un binario che da un lato tiene d'occhio la tradizione e dall'altra ama divincolarsi da essa, dando una sbirciata a quello che succede nel resto del mondo. Il cinema di Virzì è però un cinema moderno e contemporaneo, nonostante il consueto contatto con la tradizione, non solo nei mezzi espressivi adottati, ma anche nella scelta dei temi, e quest'ultima opera non smentisce tale tendenza. Pur rimanendo un film sull'amore con la A maiuscola in superficie, è la precarietà il vero e proprio oggetto della messa in scena di Virzì. Non stiamo parlando di una precarietà meramente lavorativa, ma esistenziale, tipica di questi anni zero e humus principale della caratterizzazione dei due protagonisti: Thony, cantante mai realizzata, e Guido, mancato studioso ed eterno studente. Attorno a loro gira il mondo ubriaco di normalità, con le sue insistenti domande sulla precaria situazione di Thony e Guido, con la pornografica esposizione della propria stabilità (le inquadrature di famiglie felici attorno alla coppia si susseguono in maniera quasi oscena). L'idea di base sarebbe anche buona, non proprio originalissima ma potenzialmente potrebbe portare a un'ottima pellicola per palati non troppo raffinati. Sfortunatamente le piccole cadute di stile sono davvero tante, non sufficienti a fare di tutta l'opera un gigantesco tonfo, siamo d'accordo, ma ci sono. Si parte innanzitutto da una eccessiva semplificazione dei caratteri, di stampo quasi televisivo, con una spartizione tra normali e anomali, o anche tra e simpatici e antipatici (si vedano il “ginecologo del papa” e la dottoressa scherzosa), che ha del puerile; la caratterizzazione dei due protagonisti è fin troppo basata su autentici tic che scattano puntualmente in determinate situazioni (la questione della lingua forbita di lui, ad esempio, o la timidezza di lei nei confronti della propria musica), lasciando in effetti intravedere ben poco della vera essenza delle loro figure; ci sono poi figure comprimarie semplicemente abbozzate e molto spesso davvero inutili (la gag del giapponese ubriaco e sessuomane, ad esempio, resta tuttora un mistero per me), infilate a forza per strappare un sorriso o per giustificare questo o quell'evento; c'è anche un momento onirico (il dialogo intrauterino tra Guido e gli embrioni che lui vede già come suoi figli) che non sembra nemmeno appartenere al cinema di Virzì; più in generale, per evitare di tediare il lettore con un inutile elenco, il problema di base del film è nella scrittura poco controllata e a tratti imprecisa, soprattutto nella tranche finale del film, quei venti minuti che seguono l'amara scoperta della mancata gravidanza di lei, in cui la sceneggiatura si concede fin troppe licenze per portare il lavoro a una conclusione “happy” (nel senso ovosodico del termine). Il senso che si prova è spesso quello di una certa inconsistenza nella trama (la storiellina è piuttosto fragile, e forse il tono della commedia non è dei più indicati), e del disperato tentativo di rendere leggero qualcosa di profondamente amaro, con il risultato di creare un qualcosa che non solo “non va né su né giù”, come il regista vorrebbe, ma non lascia in bocca nemmeno un qualche gusto. Positive restano la fotografia e la prova dei due attori (anche se il personaggio di Guido è intrappolato da una caratterizzazione fumettistica, mentre a quello di Thony è offerta una maggiore libertà, scelta probabilmente dettata dallo status di attrice non professionista), diretti decisamente bene. Nella media, semplicemente, la colonna sonora e piuttosto forzati i riferimenti “indie” sparsi nel corso della pellicola. Concludendo, un Virzì minore, leggermente confuso, quasi frettoloso.

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